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Convegno del Rotary sui mass media e gli scenari internazionali

 

A seguito della calorosa accoglienza di pubblico delle edizioni precedenti, continua il ciclo di convegni culturali organizzato dal Rotary Club Teramo Est presieduto dalla dott.ssa Eva Galli, oramai arrivato alla terza edizione, che si terrà sabato nella cornice del Best Western hotel Europa di Giulianova a partire dalle 17.30. Si parlerà di scenari internazionali e globalizzazione, affrontati in chiave politica dal dott. Alessandro Tentarelli, analista internazionale; ma anche degli effetti psicologici che questi nuovi scenari possono avere, soprattutto sulla fascia di popolazione più debole ed inesperta − ovvero quella minorile − e di come far fronte alle tante conseguenze negative che i media e la rete inevitabilmente portano con sè. Di questo parlerà il dott. Eugenio Flajani Galli, psicologo e saggista, che illustrerà temi quali il cyberbullismo, la dipendenza dai social, i pericoli delle app, l’(ab)uso che le nuove generazioni fanno dell’accesso alla rete....Tutti argomenti che gli insegnanti, gli educatori, i genitori, i nonni e chiunque altro abbia a che fare con i minori oggi non può non conoscere. Questa attività di informazione-prevenzione è stata pensata proprio per evitare che continuino a verificarsi i tanti spiacevoli episodi di cronaca che vedono protagonisti i più giovani: ragazzi che passano intere nottate connessi alla rete, che mettono in pericolo la propria vita pur di farsi dei selfie, che si suicidano a seguito dei commenti negativi ricevuti dai loro pari sui social....Proprio per scongiurare situazioni come queste verranno forniti gli strumenti più idonei al fine di educare i minori − ma anche i ragazzi più grandi − al corretto e sano utilizzo dei media e di internet e al come evitare pericolose situazioni che possono mettere in pericolo la loro incolumità. Fisica e psichica. Il convegno è ad ingresso gratuito ed aperto a tutti.

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Tutto esaurito per il terzo convegno del Rotary

 

Una calorosa accoglienza da parte del pubblico giuliese e dei comuni limitrofi per il terzo convegno culturale del Rotary Club Teramo Est presieduto dalla dott.ssa Eva Galli: sabato pomeriggio, nell’attico del BW hotel Europa, ha infatti parlato il dott. Alessandro Tentarelli, analista internazionale, che ha illustrato gli scenari geopolitici attuali con particolare riferimento alla minaccia terroristica dell’ISIS e alla risposta della comunità internazionale, ma pure al ruolo che la NATO ricopre nella tutela della pace. Ha preso parte al convegno anche lo psicologo e scrittore dott. Eugenio Flajani Galli, che ha invece trattato le insidie e le minacce del web e del deep web, con particolare attenzione ai temi del cyberbullismo, della pedofilia online e della dipendenza da internet; ha inoltre sottolineato il ruolo delle istituzioni e delle famiglie nel contrastare tali pericoli, fornendo al vasto pubblico di genitori, docenti e nonni presenti in sala gli strumenti conoscitivi per educare al meglio i minori al corretto e sano utilizzo della rete. Per un web più sicuro e più a misura delle nuove generazioni. Gradita sorpresa, inoltre, la presenza nell’hotel del campione del mondo Filippo Inzaghi che, in visita a Giulianova, ha incontrato i suoi fan dispensando autografi e selfie. Ha quindi concluso il convegno il consueto apericena offerto dal Rotary a tutti i partecipanti. Un grande successo, dunque, per un sabato pomeriggio diverso, passato all’insegna dell’informazione e del relax.

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Convegno sulla bellezza nell’arte e nella psicologia

La percezione della bellezza nell’arte. Ma anche nella psicologia. Questo è il tema del convegno organizzato dal Rotary Club di Teramo Est presieduto da Eva Galli, sabato 28 gennaio alle ore 17.30 presso il Best Western Hotel Europa di Giulianova Lido. Dopo il successo del primo convegno tenutosi a dicembre 2016, si continua così con il secondo appuntamento del ciclo 2016/2017 di convegni dediti ad animare la vita culturale della provincia di Teramo. Ad illustrare le tematiche interdisciplinari proposte al pubblico saranno il dott. Francesco Tentarelli, storico dell'arte e Dirigente Beni Culturali della Regione Abruzzo, ed il dott. Eugenio Flajani Galli, psicologo e saggista. Un appuntamento imperdibile per tutti gli amanti del bello e della cultura intenzionati ad approfondire delle tematiche spesso trascurate ma comunque sempre molto di attualità. Ingresso libero.

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Successo per il secondo convegno del Rotary Club


É stato il BW hotel Europa a fare da cornice al secondo convegno organizzato dal Rotary Club Teramo Est, incentrato sulle affascinanti tematiche dell'arte e della psicologia in ambito estetico. La cittadinanza ha accolto caldamente l'iniziativa culturale promossa dalla presidente del Club, dott.ssa Eva Galli, che è stata dunque premiata da un pubblico copioso di tutte le età, con tanta voglia di rinascita a seguito dei tragici eventi che hanno colpito l'Abruzzo. A portare il saluto della Regione è stato il consigliere regionale dott. Giorgio D'Ignazio, che ha sottolineato la grande importanza culturale ed economica che il bello rappresenta per la società civile, nonchè la necessità della sua salvaguardia e preservazione. A parlare al pubblico, illustrando le tematiche della bellezza sotto il profilo artistico e psicologico, sono stati il dott. Francesco Tentarelli, storico dell'arte e dirigente della Regione Abruzzo, e il dott. Eugenio Flajani Galli, psicologo e saggista. Il convegno ha inoltre contribuito alla promozione culturale e artistica nella nostra regione, facendo avvicinare anche i giovani a tali lodevoli iniziative multidisciplinari.

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Attualità e poesia a Villa Paris

Un quadro critico sull’utilizzo dei mezzi di informazione di massa, una metanalisi sul linguaggio e sui temi del mondo giornalistico al fine di ampliare le conoscenze su tutto ciò che la stampa, i telegiornali e la rete, entrando nelle nostre case, quotidianamente passano in rassegna. Ma non solo. Sarà una serata dedicata anche all’apollinea arte poetica, la poesia che apre la mente, che fa sognare a occhi aperti, che fa guardare alla realtà in modo differente. Questi saranno i temi della prossima cena evento organizzata dalla dott.ssa Eva Galli, presidente del Rotary Club Teramo Est. A dare il via all’iniziativa culturale programmata per giovedì 27 aprile a partire dalle 20.30 sarà il noto giornalista Luca Zarroli, il quale − dopo aver trattato dell’evoluzione, nel corso degli ultimi anni, dei mass media come strumenti di informazione sempre più partecipativi, social e 2.0 − lascerà spazio quindi alla Maison de la Poésie che vedrà la presentazione dei libri “La mia via” del dott. Antonio Lera, “Cercando intorno a me” di Maria Mosca e “Io, te e l’amore che ci avvolge” del dott. Eugenio Flajani Galli, psicologo e saggista giuliese, il quale inoltre omaggerà ogni partecipante all’evento di tale sua raccolta di poesie e proietterà su maxi schermo degli art-work da egli stesso ideati e realizzati. A fare da cornice il fascino senza tempo del ristorante Villa Paris di Roseto degli Abruzzi, una sontuosa villa liberty recentemente restaurata. Per nutrire (non solo) il corpo ma anche la mente.     

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La Maison de la Poésie sbarca a Villa Paris

Roseto degli Abruzzi - È stata una serata all'insegna dell'attualità e della buona poesia quella andata in scena ieri nella cornice della lussuosa residenza d'epoca "Villa Paris" a Roseto degli Abruzzi, una cena evento di gran classe organizzata dalla dottoressa Eva Galli, presidente del Rotary Club Teramo Est, che ha attirato un grande ed eterogeneo pubblico di ogni età. Illuminante l'intervento del giornalista Luca Zarroli che ha illustrato il dinamico evolversi della fruizione di contenuti mediatici sulla base di dati estrapolati da Google Analytics, e quindi il poliedrico aggiornamento dei mezzi di comunicazione di massa al fine di venire incontro alle esigenze della nuova generazione di lettori 2.0. Ma ad affascinare il pubblico presente nel salone cerimoniale di Villa Paris è stata anche la Maison de la Poésie, consistente nell'esposizione e lettura delle poesie del neurologo Antonio Lera, della poetessa Maria Mosca e dello psicologo giuliese Eugenio Flajani Galli, il quale ha fatto dono del suo nuovo libro "Io, te e l'amore che ci avvolge" e ha inoltre esposto degli artwork, ovvero composizioni artistiche visuo-fonetiche su cui sono incise alcune delle sue poesie d'amore ed introspezione. Il dott. Eugenio Flajani Galli, in qualità di psicologo, ha inoltre sottolineato che l'esposizione delle stesse è servita altresì per mettere in rilievo il ruolo terapeutico della poesia come attività di accrescimento interiore e ritrovamento di sè, nonché il grande potere psicologico che l'amore può avere su ognuno di noi e quanto la sua ricerca venga purtroppo trascurata nella superficiale e nichilista società odierna.
Con la presente il Rotary Club Teramo Est tiene a ringraziare tutti i partecipanti all'evento e invita alla partecipazione attiva alle sue future iniziative di promozione culturale.

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Grande folla alla 34° assemblea distrettuale del Rotary Club

 

É stata una folla di circa 300 persone, accorsa anche da fuori regione, quella riunitasi stamane nel suggestivo scenario del ristorante e villaggio Salinello, a cavallo delle rinomate località balneari di Giulianova e Tortoreto, per prendere parte alla 34° assemblea distrettuale del Rotary Club International. Si è parlato e dibattuto a lungo riguardo alla predisposizione delle modalità operative e attuative della preziosa mission in programma per l’anno rotariano 2017/2018, in riferimento ai grandi ideali di altruismo e partecipazione attiva che, oramai da più di un secolo, rendono il Rotary centro dell’universo dei club service. Ai lavori dell’Assemblea ha preso parte il governatore uscente, ing. Paolo Raschiatore, il governatore entrante, arch. Valerio Borzacchini, la presidente del Rotary Club Teramo Est, dott.ssa Eva Galli − che ha portato i saluti dei 3 club della provincia di Teramo − e l’assessore al turismo del comune di Giulianova, Gianluca Grimi, il quale ha portato invece i saluti della città di Giulianova, oltre ad altre importanti figure dell’associazione. Gradita sorpresa la presenza del noto psicologo e scrittore giuliese, dott. Eugenio Flajani Galli, il quale ha fatto dono del suo nuovo libro di poesie d’amore “Io, te e l’amore che ci avvolge”, il quale ha sottolineato la grande rilevanza di questo sublime sentimento all’interno della società odierna, di cui il Rotary si fa da sempre portatore e promotore fattivo. Un amore definito quale costruttivo aspetto della psiche, che si fa anche “carburante vivo della fervente macchina della solidarietà, incessante forza che porta la speranza ove c’è il dolore, il sorriso ove sono le lacrime e la pace ove regna la sofferenza”.

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWS.

Iperconnessione a internet: la dipendenza tecnologica che colpisce le nuove generazioni

 

Le odierne generazioni, si sa, sono molto affezionate alla tecnologia che le circonda, così tanto da arrivare a esserne perfino dipendenti. La nuova dipendenza dalla rete, facilmente accessibile su qualsiasi device, ha assunto la denominazione di IAD (internet addiction disorders). Sono in pochi a conoscerla nello specifico, ed è un vero peccato, perchè soprattutto i genitori, ma anche gli altri familiari, gli educatori, i docenti e più in generale chiunque ha contatti stretti con la smart generation non può esserne all’oscuro. Un recente studio, condotto su un campione italiano di 8000 partecipanti tra i 14 e i 19 anni, può chiarire meglio le idee, anche perchè di studi italiani ed aventi un campione così copioso non se ne trovano in tanti...ora lo presento più nel dettaglio, commentandolo come ho fatto nel mio ultimo convegno ove ho affrontato questa tematica.

 

Il 98% della popolazione avente un’età compresa tra i 14 e i 19 anni possiede uno smartphone a partire dai 10 anni e oltre 3 su 10 lo usano a partire da 1 anno e mezzo/2.

 

Che il 98% possieda uno smartphone non stupisce chi conosce le nuove generazioni, ma forse sono in pochi ad essere a conoscenza del fatto che circa un terzo di essi già lo utilizzi a partire da un’età in cui l’essere a contatto con uno strumento quale lo smartphone è assolutamente prematuro. Lo scopo principale di un telefono è appunto quello di rimanere o entrare in contatto con altre persone nel momento in cui la barriera rappresentata dalla distanza fisica ne pregiudica (o ne rende meno appetibile) il contatto diretto. Ovviamente però un bambino che ha 2 anni o anche meno non possiede una vita sociale tale da aver bisogno di un cellulare per poter contattare altre persone, nè tantomeno esce da solo di casa rendendo dunque necessario il possesso del telefonino; per quanto riguarda invece la navigazione su internet che lo smartphone mette a disposizione dell’utente, è chiaro che tale attività conoscitiva esula dalle necessità epistemologiche di un bimbo di questa età, a maggior ragione poichè ciò di cui avrebbe bisogno di scoprire e conoscere già lo può ben scoprire e conoscere osservando ed esplorando la realtà che lo circonda: non c’è dunque alcun bisogno di far conoscenza di ciò che la realtà online ha da offire, oltretutto in quanto così facendo si troverebbe a conoscere meglio la rete della realtà offline in cui passa la sua esistenza (un vero e proprio paradosso per un 2.0 new born!). Più che altro i genitori rei di mettere lo smartphone nelle mani di un bambino così piccolo forse non capiscono che in tal modo favoriscono una vera e propria dipendenza, poichè il bimbo messo a contatto con uno strumento tecnologico potente quanto lo smartphone sin dai primi anni di vita cresce arrivando ad assimilare il telefono come una parte di sè, come qualcosa che deve avere sempre con sè e da cui non può mai separarsi, ovvero ne è dipendente così come un tossicodipendente lo è per la droga, un alcolizzato per l’alcool, un giocatore d’azzardo per il gioco...ecco poi perchè ci sono tanti bambini i quali reagiscono con colossali capricci allorchè li si priva del cellulare! Un’argomentazione spesso utilizzata dai genitori che propugnano l’uso dello smartphone da parte di bimbi poco più che lattanti è che “in questo modo imparano prima e meglio l’utilizzo di uno strumento tanto importante quanto è lo smartphone”, ma in realtà la ragione che li spinge ad abituare i figli a giocherellare con il telefono − scrivo giocherellare perchè a quell’età non è concepibile che il bambino lo utilizzi per chissà quali altre ragioni − non è la “socializzazione alla tecnologia” per fini didascalici, di modo che un giorno possano riuscire meglio nel loro utilizzo, bensì la mera finalità di intrattenimento che assimila il nobile smartphone ad una mera tata o ad un consolante ciuccio. Effettivamente anche bimbi più grandi, i quali frequentano la scuola elementare o quella media inferiore, sono perfettamente in grado di imparare ad utilizzare uno smartphone anche se non l’hanno avuto nelle mani fin da quando erano in fasce; d’altra parte ci riescono anche gli adulti ad imparare ad utilizzarlo, figuriamoci i bambini! Dunque non serve nascondersi dietro a un dito: è palese che i genitori che mettono in atto il “metodo smartphone” lo fanno per una loro comodità personale, ad esempio per tenere impegnato il bambino nei momenti in cui la sua presenza può risultare scomoda oppure per calmarlo allorchè si appresta a fare dei capricci (ma come abbiamo visto, se poi si osa toglierglielo di mano i capricci aumentano in maniera esponenziale).

 

Circa 5 su 10 impiegano lo smartphone dalle 3 alle 6 ore extrascolastiche, il 16% dalle 7 alle 10 ore e il 10% oltre le 10 (ma il 63% lo utilizza anche a scuola durante le lezioni).

 

Il bambino che cresce con lo smartphone, una volta arrivato a scuola, ovviamente non cambia le sue abitudini così radicate in sè solo per il semplice fatto che si trova fuori casa. E la scuola attuale, di per sè, non è il luogo più accattivante per la generazione 2.0: si parla molto poco di tecnologia, lo smartphone e gli altri devices che permettono un collegamento alla rete sono visti più come dei nemici da abbattere che come degli strumenti da scoprire e capire. Pensiamo ad esempio a tutte quelle circolari − sovente ignorate dai discenti stessi − che i dirigenti di istituto continuano a stilare per scoraggiare l’accesso alla scuola ai device teconologici per mano degli studenti, oppure anche alle scarse conoscenza in materia di tecnologia da parte di larga parte del corpo docente, che pertanto non è in grado di istruire la classe sul corretto uso della tecnologia di cui ogni famiglia dispone. Di tale situazione sono complici anche i programmi scolastici, che un ministero dell’Istruzione (fin troppo) ancorato al passato si esime dall’aggiornare e che dunque non lascia spazio alla conoscenza scolastica della tecnologia odierna. La stessa tecnologia in compagnia della quale i più giovani passano ore ed ore, tant’è che a 1 su 10 non bastano 10 ore in compagnia dello smartphone davanti agli occhi, una latenza temporale effettivamente eccessiva, che priva di altre attività più importanti (prima tra tutte lo studio, dato che tra l’altro − passando anche tanto tempo a scuola davanti al telefono − lo studente dovrebbe recuperare tale tempo perso una volta rientrato in casa) e che estranea dalla realtà e fa correre tanti rischi, anche molto gravi. Basti pensare al cyberbullismo, la pedofilia online, le condotte pericolose oggetto di emulazione...tutte cose che appunto a scuola non vengono insegnate. E se non se ne parla non si fa altro che arrivare, anche se indirettamente, a favorirle. Peccato che benchè siano tematiche molto più importanti per i minori (oltretutto ne va della loro incolumità) rispetto a tante altre che si affrontano a scuola, ovvero quelle che concernono i piani di studio, in classe se ne senta parlare solo di rado. La scuola renderebbe alla società un’incomparabile opera meritoria se educasse gli studenti al corretto e sano uso della tecnologia.

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWS.

Iperconnessione a internet: la dipendenza tecnologica che colpisce le nuove generazioni - i social network

Nel mio ultimo articolo pubblicato su questo giornale ho presentato i risultati relativi a uno studio su 8000 partecipanti in età giovanile avente come oggetto l’indagine del rapporto che essi hanno con l’accesso alla rete. Abbiamo visto che le nuove generazioni passano fin troppo tempo collegate a internet tramite i vari device e in particolar modo tramite lo smartphone, che viene spesso utilizzato perfino a scuola durante le ore di lezione. A ciò concorre la diffusione sempre più capillare di phablet, ovvero cellulari di grandi dimensioni, dai 5,5 pollici in su (“phablet” sarebbe infatti l’unione dei termini anglosassoni “phone” e “tablet”), che rendono più comodo l’utilizzo del telefono a mo’ di computerino da portare con sè ovunque si vada e in qualsiasi situazione si presenti; ma tanta colpa ce l’hanno anche tutti quei genitori i quali mettono lo smartphone nelle mani dei figli sin dai primissimi anni di vita. Siccome abbiamo visto anche che la scuola non è stata effettivamente in grado − almeno fino ad ora − di educare gli studenti al corretto utilizzo della tecnologia di cui si trovano sempre più in possesso, non rimane altro che informare le famiglie e le istituzioni che si occupano dei giovani in merito a queste tematiche, come ho fatto anche nel mio ultimo convegno, al fine di poter promuovere tra le nuove generazioni un sano rapporto con la rete. Ecco dunque un altro importante punto della ricerca che andrò personalmente a commentare:

 

Il 95% degli adolescenti ha almeno un profilo sui social network a partire in media dai 12 anni, e la maggior parte gestisce in parallelo 5/6 profili e 2/3 app di IM. Il 69% ha un profilo su Facebook, il 67% su Instagram, il 66% su YouTube, il 47% su Snapchat, il 22% su Ask, il 16% su Twitter e il 15% su Tumblr.

 

Che in età adolescenziale sia potente la motivazione all’instaurare e mantenere rapporti sociali coi coetanei è cosa risaputa in psicologia; tuttavia il recente avvento del web 2.0 − di cui i social network sono i maggiori esponenti − ha portato alla nuova convinzione tra i giovani che “se non si ha un profilo (almeno) sui maggiori social si è out”, ovvero la presenza capillare sui social è diventata talmente necessaria da poter tagliare fuori dai rapporti sociali nell’eventualità in cui venga a mancare: ecco perchè non ci si limita nemmeno più alla sola presenza su Facebook come accadeva qualche anno fa, ma si cerca di essere presenti su quanti più social possibili. Una necessità che in realtà non avrebbe ragione di esistere, poichè ogni ragazzo normale non ha veramente bisogno della presenza costante e capillare sui social al pari di una celebrità, un politico o un’azienda, che invece hanno chiaramente bisogno di una vetrina online per poter raggiungere il maggior numero di persone. Tale ricerca narcisistica della visibilità pura e semplice, senza appunto delle tangibili motivazioni dietro, porta con sè allarmanti pericoli: primo tra tutti possiamo ricordare la possibilità di farsi inconsapevolmente notare da malintenzionati − pedofili in primis − i quali non si fanno di certo scappare la ghiotta opportunità offerta dai social di poter spiare un minore, conoscerlo meglio sulla base delle informazioni che lascia trapelare dal suo profilo e infine entrarci in contatto; in secondo luogo c’è la possibilità di rendersi preda dei cosiddetti cyberbulli e delle loro offese ed umiliazioni, una minaccia che arriva a compromettere la sanità mentale della vittima e che − in casi estremi − può portare perfino al suicidio; in terzo luogo c’è la possibilità di imbattersi in contenuti inappropriati per una giovane età, in particolar modo quei video − presenti sulle piattaforme di video streaming quali YouTube, Vimeo e Dailymotion, ma anche su Facebook − contenenti riferimenti a comportamenti pericolosi per sè e per gli altri, che vengono emulati dai giovani i quali riprendono se stessi impegnati in tali bravate per poi caricare a loro volta i video della loro “impresa” sui social in cerca di laute visualizzazioni, incoraggianti mi piace e commenti favorevoli. Il rapporto morboso che si viene a creare e ad instaurare con i social è ben rappresentato dal fatto che i giovani non selezionano quali di essi utilizzare, bensì li utilizzano indiscriminatamente seguendo la moda del momento. Essi infatti GESTISCONO in parallelo 5/6 profili, ovvero non si limitano ad iscriversi e a creare un account su di un dato numero di social per poi vedere se fanno al caso loro e quindi selezionare solo quelli che gli possono veramente servire. É dunque lampante come la presenza sui social sia oramai diventato un dovere, un must da seguire senza se e senza ma. Facciamo un esempio: se già si possiede Facebook, si potrebbe fare benissimo a meno di Instagram, d’altra parte il social di Mark Zuckerberg permette allo stesso modo di pubblicare e condividere foto, seguire ed entrare in contatto con altre persone, diffondere hashtag...dunque perchè è così pressante la necessità di iscriversi a Instagram? Perchè i ragazzi di oggi sono diventati tutti grandi appassionati di fotografia, tutti fotografi provetti? Assolutamente no, altrimenti a Instagram avrebbero preferito Flickr − il social di Yahoo dedicato alla fotografia, accessibile anche da PC (Instagram lo è solo ed esclusivamente dalla app per Android o iOS, almeno per poter caricare le foto) e che regala ben 1 TB di upload in contenuti fotografici ad ogni iscritto − ma siccome è meno conosciuto e popolare rispetto ad Instagram, ecco che invece tutti utilizzano Instagram. Questo (ab)uso dei social network rimane tra l’altro fra le principali cause di eccessivo utilizzo della rete, che sottrae tantissimo tempo allo studio e ad altre attività importanti...ma d’altronde come si fa a trovare il tempo per poter studiare se ci si deve prima scervellare su come fare il prossimo selfie da postare? Si tratta di controcultura, la nuova cultura della mera apparenza fisica che contribuisce alla creazione dell’identità personale in risposta alla necessità di ricerca del sè che avviene in adolescenza. Oggi si è qualcuno in base al numero di mi piace ottenuti sui post di Facebook, di iscritti al proprio canale YouTube, di follower su Instagram....L’apparire in contrapposizione all’essere. Anche perchè se si è veramente qualcuno, se davvero si ha la testa sulle spalle, non si passano le ore sui social alla ricerca di approvazione.

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWS.

Iperconnessione a internet: la dipendenza tecnologica che colpisce le nuove generazioni - i selfie

Eccoci giunti alla terza parte di questa serie di articoli che ho scritto al fine di far luce sul rapporto tra i giovani e le moderne tecnologie, analizzando un recente studio condotto su 8000 giovani italiani. Nel mio ultimo convegno e negli articoli precedenti abbiamo visto il rapporto morboso che sussiste tra i giovani e i social, gli smartphone e la rete, complici anche la scuola e molti genitori che non educano a dovere la nuova generazione all’utilizzo corretto dell’odierna tecnologia. Oggi vedremo più in dettaglio la moda del momento che sta dilagando soprattutto tra i giovani: i selfie. É stato infatti appurato che:

 

i soggetti tra i 14 e i 19 anni fanno circa 5 selfie al giorno e circa 1 su 10 di essi ricorrono a selfie estremi in cui mettono anche a repentaglio la vita; circa 2 su 10 condividono tutti i selfie che fanno sui social network e su Whatsapp ed oltre il 12% ha inoltre ricevuto una sfida a fare un selfie estremo per dimostrare il proprio coraggio.

 

Non semplici foto, selfie. I selfie vanno oltre i tradizionali ritratti in quanto vi differiscono fondamentalmente a causa della loro struttura: se i normali ritratti presuppongono che ci sia un agente e un ricevente, un soggetto e un oggetto − ovvero una persona che scatta la foto e una che viene immortalata − nei selfie entrambe queste figure coincidono, e quindi c’è un unico individuo che porta a termine l’opera. E questo è un dato importante, poichè con i selfie si porta avanti il messaggio: “sono io prima di tutti”, si favorisce la formazione di un sè ipertrofico, onnipotente, accanto a un mondo che si limita a fare da sfondo, una realtà in cui la propria presenza è sottolineata quanto non mai. “Appaio, dunque sono. E quanto più appaio, tanto più sono qualcuno”. Questo è ciò che si vuole affermare con i selfie: apparire per valere, apparire per non cadere nell’oblio. Sì, perchè i selfie presuppongono ovviamente l’immediata condivisione sui social e sulle app di IM (messaggistica istantanea) come Whatsapp, e tale dato appare chiaro dalla ricerca: ben il 20% condivide ogni suo selfie che si è scattato. Un grave pericolo, però, per la propria incolumità personale, anche in quanto i malintenzionati − come i pedofili o i cyberbulli − possono trarre un enorme vantaggio da tutta quella miriade di selfie che finiscono postati online: un cyberbullo potrebbe schernire pesantemente un suo coetaneo a causa del fatto che appare poco attraente, oppure obeso o ancora poichè porta gli occhiali; un pedofilo potrebbe risalire all’identità di un ragazzino visionando i suoi selfie, oppure volerci entrare in contatto perchè magari, dopo averli visionati, lo trova di suo interesse. Ma i ragazzi faticano a comprendere questi pericoli, tanti ne sono a conoscenza ma cercano di rimuoverli e tenerli lontani dalla coscienza, a tanti altri nessuno glieli ha spiegati a dovere, e soprattutto a tanti pesa il non poter seguire l’impazzante moda dei selfie, che d’altra parte è resa anche molto forte sia dai produttori di hardware sia da quelli di software. I primi poichè producono cellulari sempre più improntati ai selfie: se infatti i modelli meno recenti di smartphone aventi la fotocamera anteriore erano destinati a un utilizzo della stessa finalizzato soprattutto a fare da supporto alle videochiamate, al contrario quelli di nuova generazione sono focalizzati proprio sui selfie. Non a caso, infatti, stanno uscendo sul mercato cellulari la cui fotocamera anteriore ha sempre un numero maggiore di megapixel, oppure ancora dispone di altri gingilli come lo smile detector, lo stabilizzatore ottico e perfino il flash. É lampante, dunque, che tali modelli di telefoni siano chiaramente destinati ad un utilizzo orientato ai selfie (basti pensare che esiste addirittura un modello di Asus Zenfone denominato proprio “Selfie”!). Per quanto riguarda invece i produttori di software, anche qui è chiaro come essi stiano orientando la produzione di app sempre più in un’ottica “selfie”, e ciò è palese se assistiamo alla progressiva evoluzione dell’app “fotocamera” presente su ogni smartphone: se prima era lasciato poco spazio in termini di opzioni e funzionalità alla fotocamera anteriore, oggi questa è quasi più evoluta rispetto a quella posteriore. Ma abbiamo assistito anche a un vero e proprio boom di altre app che risultano in un modo o nell’altro collegate ai selfie: le innumerevoli app selfie camera, quelle inerenti l’editing dei selfie e il loro fotoritocco al fine di apparire meglio in essi o comunque di poter modificare il proprio aspetto, addirittura ci sono social network che integrano funzionalità propriamente legate ai selfie (ad esempio Snapchat con i suoi filtri) oppure il cui successo è stato dettato in larga parte dalla condivisione di selfie ad opera dei vari utenti (Instagram in primis). Insomma, l’industria 2.0 sa cavalcare molto astutamente l’onda dei selfie per poterne trarre lauti profitti economici, senza però tenere in conto tutti quegli aspetti negativi, almeno per l’incolumità personale, legati a questa moda. Non mi riferisco esclusivamente a quei rischi indiretti che ho citato sopra − entrare in contatto con pedofili, cyberbulli...− ma anche a pericoli ben più diretti e immediati, rappresentati dal doversi mettere a rischio al fine di scattare quei cosiddetti “selfie estremi”, ovvero dei selfie in stile “prova di coraggio” che i giovani mettono in atto con l’obiettivo di dimostrare quanto siano valorosi e sprezzanti del pericolo. Almeno finchè non ci rimettono la pelle. Selfie mentre si guida a velocità di rally, selfie in bilico su dei tetti o dei cornicioni, selfie sui binari della ferrovia allorchè il treno sta per passare....sono tutti selfie che si possono tristemente trovare in bella mostra sui social. E il rischio maggiore è proprio legato al fatto che tali selfie estremi vengono diffusi tramite i social e dunque finiscono con lo spingere all’emulazione inducendo altri giovani ancora a portare a termine queste bravate. Questo è il prezzo da pagare per i selfie.

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA NOI DONNEANANKE NEWS.

La mercificazione della donna a fini economici: dagli anni '70 ad oggi

In una società a maggioranza eterosessuale e con la popolazione maschile che si trova a detenere − ancora oggi − maggiori risorse economiche e potere rispetto a quella femminile, mercificare la figura della donna al fine di ricavarci un business, un guadagno economico, si è rivelata una proficua strategia di mercato. Sin dagli anni ’70 la “liberazione sessuale” è stata sfruttata dall’industria dell’intrattenimento con il fine ultimo di offrire contenuti erotici e softcore a una platea di uomini tediati dal vedere in topless e lingerie (solo) le loro mogli e fidanzate: ecco dunque sorgere la commedia sexy simbolo del cinema anni ’70, a cui hanno contribuito − con la loro comicità − i vari Lino Banfi, Alvaro Vitali, Carlo Delle Piane, Renzo Montagnani, Bombolo...e − con il mettere in mostra il proprio corpo − le varie Edwige Fenech, Gloria Guida, Lilli Carati, Barbara Bouchet, Ria De Simone....E la liberazione sessuale, da conquista concepita per affermare la libertà e l’autonomia da parte delle donne è invece diventata un'occasione di soddisfacimento delle pulsioni sessuali maschili. Oggi i tempi sono cambiati, e per vedere su uno schermo un bel corpo femminile senza veli non basta più, e da eros e softcore si è passati a pornografia ed hardcore: una forma di intrattenimento pericolosa, che può anche portare fino alla vera e propria dipendenza psicologica. Ma d’altra parte come potrebbero fare gli uomini d’oggi ad accontentarsi della semplice ammirazione di sensuali nudi femminili (erotismo) senza che sia presente l’esplicito contenuto sessuale (pornografia)? I nudi femminili e − più in generale − le immagini di belle ragazze spesso poco vestite sono già onnipresenti in numerosissimi contenuti pubblicitari, perchè nel marketing, si sa, il corpo femminile ha il compito di accompagnare il prodotto pubblicizzato per poterlo rendere in tal modo maggiormente accattivante. Un po’ come si usano i fiocchetti e la carta regalo per accompagnare i pacchi dono, le pallette e i ninnolini pendenti per addobbare l’albero di Natale, le candeline e le composizioni floreali adibite a centro tavola per fare da scenografia alle portate....Con l’intento di ottimizzare l’attrattiva che il proprio corpo può suscitare, la maggior parte delle donne si fa così prendere dagli accattivanti trucchi, dai vestiti eleganti, dalle acconciature alla moda e dai gioielli vistosi senza però rendersi conto che a loro volta le multinazionali usano il loro stesso corpo per abbellire i prodotti che immettono sul mercato. Ma della mercificazione di loro stesse e del proprio corpo le donne non sono solamente vittime, ma molto spesso anche complici, e non solo in quanto generalmente non fanno niente per evitarla, ma poichè sono in tantissime a promuoverla e portarla avanti, consapevolmente o meno: quante donne si rivolgono al chirurgo estetico con l’intenzione di apparire più attraenti agli occhi maschili? E quante altre amano mettere in mostra il loro fisico (ad esempio postando foto sexy su Facebook e Instagram) ma non il loro cervello? Dopotutto, se nessuna donna si prestasse a mercificarsi, allora il problema non si porrebbe, ma la società fa passare un messaggio assai invitante, a cui è molto difficile resistere, il messaggio che in fin dei conti alle donne basta essere belle (e mettere in mostra la loro bellezza esteriore) per valere qualcosa ed essere accettate, a maggior ragione perchè milioni di bamboline senza cervello − oltre a poter essere sfruttate per fini economici − non rappresentano un pericolo per i governi e le lobby che ci plasmano la vita giorno dopo giorno. Magari perchè una donna che pensa poco vale, sì, poco, ma si rivela anche molto meno problematica. Ma d’altronde a che serve valere qualcosa come Donna nella società in cui conta di gran lunga di più valere come oggetto?

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA MI CI PORTI? e ANANKE NEWS.

L'Abruzzo, dove il verde della campagna e il blu del mare si fondono per donare sorrisi a grandi e piccini

Forse non è la regione più conosciuta d’Italia, nè tantomeno quella più pubblicizzata. Un vero peccato, perchè l’Abruzzo sa regalare a piene mani soddisfazioni per tutte le età, senza invidiare nulla a regioni più note, ma al contempo a prezzi decisamente più contenuti. Ed è proprio il turismo a misura di famiglia il principale standard della ricettività abruzzese, un turismo che affonda le sue radici nella seconda metà dell’800 ed è da sempre rinomato per i “bagni” il cui valore terapeutico ha lasciato spazio nondimeno a quello rilassante e ricreativo che solo chilometri e chilometri di spiaggia sabbiosa, a misura di bambino, possono elargire. Non a caso in provincia di Teramo si trovano comuni che hanno avuto il merito di ricevere più e più volte la prestigiosa Bandiera Blu di Legambiente − che testimonia la salubrità dell’aria e la pulizia delle acque e delle spiagge − nonchè la Bandiera Verde dei pediatri italiani, che attesta l’idoneità di questi bei luoghi ad accogliere adeguatamente anche i nostri amati bimbi. In particolare la meta balneare di Giulianova è quella che più di tutte incarna la spiccata vocazione turistica del litorale abruzzese, tant’è che il primo chalet fu inaugurato il 12 luglio 1874, ed è a tutt’oggi in funzione. Giulianova Lido dispone tra l’altro di un importante porto turistico in cui potrete acquistare, a modici prezzi, la vostra imbarcazione preferita per indimenticabili tour in barca a vela che faranno contenta tutta la famiglia.

E non saranno solo l’amenità delle distese sabbiose e dei paesaggi marini a rendere indimenticabile la vostra permanenza in Abruzzo, ma anche l’immergersi in una natura ancora incontaminata, visitare borghi da favola fuori dallo spazio e dal tempo e ritrovare un modo di vivere ancora a misura d’uomo: questo è tutto ciò che può offrire il dolce paesaggio collinare dell’entroterra, che gode di un’attrattiva unica e inimitabile. I caratteristici piccoli borghi di origine medioevale, il cui fascino è rimasto inalterato con lo scorrere dei secoli, offrono ritmi di vita naturali e rilassanti, aria pura senza fonti di inquinamento nelle immediate vicinanze, cibi genuini e salutari, possibilità di passeggiate ed escursioni − anche con trekking a cavallo − e visite a rinomate cantine di qualità i cui vini DOP, DOC, DOCG e IGP sono apprezzati ed esportati in tutto il mondo, contribuendo a tenere alta la bandiera del Made in Italy nel panorama enogastronomico internazionale. Tra l’altro, se si volesse optare per acquistare casa in Abruzzo, si rivelerebbe una mossa sagace cercarla appunto in tali piccoli borghi dell’entroterra, poco distanti dal mare e ben collegati ad esso, in quanto i costi al metro quadro risultano sensibilmente inferiori rispetto a quelli delle abitazioni sulla costa. Inoltre si avrebbe il vantaggio, nei mesi estivi, di sfuggire all’afa e alle temperature che sul versante costiero vanno ben oltre i 30° C e che alla lunga potrebbero rendere soffocante il soggiorno sulla costa.

Uno di questi borghi medioevali, Poggio Morello, frazione di Sant’Omero, è a pochi passi dal parco nazionale del Gran Sasso-Monti della Laga, e dista solo 8 km circa dal mare Adriatico. E proprio qui a Poggio Morello abbiamo incontrato una distinta signora del nord che ha scelto di trasferirsi qui in Abruzzo e che ci racconta: “Personalmente non sapevo che qui avrei trovato un clima così gradevole: da quel momento la mia vita è cambiata! Il clima mediterraneo mi permette di respirare nuovamente a pieni polmoni, come quando ero giovane! A Milano invece l’aria è pesante e irrespirabile e spesso soffrivo di attacchi di asma. Ora per fortuna la “fame d’aria” è solo un brutto ricordo”. E infatti abbiamo constatato che ci sono tanti bambini che giocano all’aperto in piena libertà con lo sfondo della natura ancora incontaminata, dove è possibile − con un po’ di fortuna − imbattersi in teneri scoiattolini, eleganti aironi cenerini (sul fiume Salinello) ed anche timide volpi.

 

Visitate l’Abruzzo, ma non solo per ammirarlo, per amarlo!

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWS.

Il decalogo delle "5 A" che ogni coppia dovrebbe rispettare

Nella mia esperienza personale e professionale ho sempre assegnato uno spazio importante al concetto di coppia e di relazione sentimentale, ancor più in un contesto temporale delicato come quello di oggi, che vede (fin) troppe persone prendersi e lasciarsi come se nulla fosse. Evidentemente perché l’atto comune di costruzione di una relazione sana, positiva e funzionale è una competenza che si deve conoscere e apprendere, al pari di come si impara anche a guidare un’automobile, utilizzare uno smartphone o un PC e imparare qualsiasi nuova attività. Nell’esemplificare cosa si può attivamente fare, dunque, per poter imparare a edificare e mantenere una relazione appagante per entrambi i partner ho stilato un decalogo avente la peculiarità di risultare molto facile da tenere a mente, poiché costituito dalla prima vocale e lettera dell’alfabeto ripetuta cinque volte: cinque volte A. Ogni A rappresenta proprio un’attività che ciascun componente della coppia dovrebbe scegliere di compiere, con costanza e buona volontà, al fine di migliorare attivamente la vita sentimentale propria e del partner, e portare allo scoperto tutto ciò che di magnifico può esserci all’interno di una relazione. Più nel dettaglio le “5 A” sarebbero:

 

AMARE

 

ASCOLTARE

 

AIUTARE o ASSISTERE

 

AMMIRARE o APPREZZARE

 

ASPETTARE o ATTENDERE

 

reciprocamente il proprio partner.

 

Amare è molto probabilmente il primo concetto che affiora alla mente allorchè si pensa a una relazione di qualità, ed effettivamente l’amore è un sentimento importantissimo all’interno della coppia. Io stesso ho scritto anche un libro di poesie d’amore e ogni giorno di più mi rendo conto di quanto una relazione possa essere vuota se non contempla l’amore. Però ci sono molti generi diversi di amore, che variano a seconda della persona, della fase di vita, dei valori, dell’educazione ricevuta eccetera. Ecco perchè ognuno di noi può amare a suo modo, un modo diverso dall’altro, e che può pure evolversi nel corso del tempo. Ciò spiega perchè, ad esempio, l’amore che inizialmente affiora tra due persone e che porta all’inizio di una relazione sentimentale è assai diverso da quello che intercorre tra chi ha passato anni ed anni insieme. Ma non importa: l’importante è amare e cercare di amare con tutto se stesso. Dopotutto si va incontro a una relazione di pura e semplice convenienza se si sceglie di stare insieme a una persona che non si è mai amata (scrivo “che non si è mai amata” perchè capisco che è molto difficile amare il partner ogni giorno che si passa insieme e infatti la maggior parte delle persone non ne è capace; ma se si sta con un essere umano per cui proprio non abbiamo mai provato amore, allora il discorso cambia).

Ascoltare è altresì assai importante perchè − se è vero che al giorno d’oggi si parla molto e molto animatamente − si tende però a non assegnare la stessa rilevanza all’ascolto. Va bene esporre i propri pensieri, desideri e le proprie perplessità, esternandoli al partner, ma se poi non si ascolta ciò non serve a nulla: la comunicazione è una ricchezza all’interno del rapporto solamente allorchè preveda che vi sia anche un ascolto attivo e reciproco. Ascoltare empaticamente è il segreto per poter ottimizzare la comunicazione nella coppia ed evitare dunque malintesi e situazioni ambigue. E se si pensa che la maggior parte delle liti e dei conflitti in una relazione avviene proprio perchè la comunicazione non è appropriata − in quanto tutti parlano ma solo in pochi ascoltano − allora si può capire ancora meglio quanto la capacità di ascolto sia una componente essenziale di una relazione coi fiocchi.

Aiutare o assistere è un po’ la controparte più pragmatica dell’amare, ma si sa: stare in coppia serve anche affinchè sia possibile espletare delle finalità pratiche, che ogni giorno la vita quotidiana freddamente pone dinanzi a noi. Aiutare dunque la persona che amiamo − sia nella risoluzione dei piccoli, inevitabili, problemi di tutti i giorni, sia in situazioni più eccezionali e gravose − è l’unica via percorribile che offre la possibilità di superare tutti quegli ostacoli che la vita ha in serbo per noi: difficoltà tuttavia superabili con una persona capace e fattiva al nostro fianco decisa a tenderci una mano amica che ci accompagni nel difficile cammino della vita. Un cammino a cui nessuno di noi può sottrarci.

Ammirare o apprezzare lui o lei è la quarta colonna portante di una relazione matura e desiderabile: infatti, se non si tiene in considerazione il proprio partner, se non lo si vede come una persona capace − che date le sue risorse, conoscenze e competenze riesce a farci stare bene − allora non sarebbe possibile immaginare di passarci effettivamente una vita accanto. E cosa ancora più importante, è necessario ammirare/apprezzare il partner per quello che è veramente, non per come appare o per come vorremmo che fosse. D’altra parte ognuno di noi possiede delle conoscenze e competenze che ha acquisito tramite l’istruzione, il lavoro, dei corsi vari o anche semplicemente in maniera autonoma, ed è auspicabile che vengano messe al servizio della coppia, della famiglia e − (anche) per tale ragione − diventino motivo di ammirazione e apprezzamento.

Aspettare o attendere l’uomo o la donna della propria vita costituisce nondimeno un aspetto essenziale della relazione, poichè ogni persona al mondo ha i suoi tempi e le sue esigenze e quindi − se per qualsiasi motivo non riusciamo a stare al passo con i tempi e le esigenze del partner − occorre fermarsi a riflettere sulla possibilità o meno di rompere la relazione: se però si arriva alla conclusione di non volerla troncare, allora è necessario armarsi di santa pazienza e aspettare la persona che amiamo. Sì, perchè l’amore necessita anche di tempo. Ed è lo stesso tempo che dobbiamo impiegare per conoscere (bene) il nostro partner. Aspettare il partner non è solo un dovere da porre in atto all’interno della relazione (allorchè diventi necessario) bensì serve attuarlo anche molto prima che la relazione vera e propria abbia inizio: attendere dunque il proprio partner, non accontentarsi del primo o della prima che capita, saper scegliere e imparare (anche) a dire di no quando necessario. Non dobbiamo infatti dimenticarci che una relazione, in realtà, inizia ben prima di quando due persone sono insieme: comincia infatti dal momento in cui si è seriamente in cerca della nostra dolce metà. Un essere mortale che quotidianamente ci riempia il cuore facendolo battere di gioia. Una persona con la quale, attuando con impegno e serietà questo decalogo delle “5 A”, si potranno vivere i momenti migliori che la vita ci potrà regalare. Giorno dopo giorno, mano nella mano.

ARTICOLO ESTRATTO DA CITY RUMORSABRUZZO NEWSABRUZZO IN VIDEOIN ABRUZZO, CENTRALMENTEVOX PUBLICA, GIULIANOVA NEWSLA NOTIZIAVIRTÚ QUOTIDIANETM NOTIZIEGIORNALE DI MONTESILVANOIL FARO 24NOTIZIABILEINFORMAZIONE.ITCAVALIERE NEWS RADIO AZZURRA

Agape: il festival ove arte, scienza e letteratura si incontrano

Giulianova − il sostantivo greco ἀγάπη (“agape” in caratteri latini) è uno dei 7 modi per definire l’amore nella Grecia antica. E non è un amore qualunque, ma l’amore più alto e autentico, incondizionato ed altruistico; un nome che si addice perfettamente per il nuovo festival scientifico-letterario del Rotary Club International, che vuol porsi come autentica vetrina culturale della città degli Acquaviva. Nella giornata di ieri i club Rotary Teramo Nord Centenario, Rotary Teramo e Rotary Teramo Est − presieduto dal Prof. Antonio Lera, direttore artistico del festival − hanno selezionato le pittoresche cantine San Flaviano e il loggiato del sottobelvedere come location ritenute idonee ad ospitare il festival e i relativi relatori, i quali hanno dato inizio alla kermesse vertendo su una eterogenea selezione di arti, quali la letteratura (ad opera delle scrittrici Cristina Del Tutto, Monica Pelliccione, Sara Palladini, Raffaella Lanzetta e Sonia Planamente, degli scrittori Antonio Lera, Angelo Sagnelli, Luca Romani, Luca Filipponi e Marco De Annuntiis e del critico letterario Siriano Cordoni), la musica (ad opera del pianista Ugo Minuti), la pittura, ad opera della pittrice Anna Maria Silvana Di Giuseppe e dei pittori Gabriele Partemi e Pirò, il cinema − ad opera della sceneggiatrice Franca Berardi − e le arti visive, ad opera del fotografo Silviano Scardecchia. La parte scientifica è invece stata affidata al dott. Eugenio Flajani Galli − psicologo, psicosessuologo e autore giuliese − il quale ha passato in rassegna le principali tecniche di rilassamento propedeutiche a combattere lo stress e a (ri)trovare la pace interiore, evidenziandone i benefici che possono apportare a mente e corpo e al contempo illustrandone la realizzazione pratica per permettere a ogni ascoltatore di conoscere meglio tecniche quali la mindfullness, il Training Autogeno, il rilassamento muscolare progressivo di Jacobson, eccetera. Ha concluso il festival l’operatore olistico Francesco Mosca, il quale ha suonato le campane tibetane durante l’apericena tenutosi nelle cantine San Flaviano.

Ospiti speciali del festival sono stati inoltre il rettore dell’Università degli studi di Teramo, prof. Dino Mastrocola, da sempre molto interessato alle tematiche scientifico-letterarie del territorio teramano, e il direttore artistico dello Spoleto Art festival, Luca Filipponi.

L’ἀγάπη festival si è dunque confermato come manifestazione culturale di punta per chiudere in bellezza l’estate giuliese, rivelandosi altresì un evento-traino per far apprezzare a un copioso pubblico proveniente da ogni parte del centro Italia l’affascinante centro storico di cui gode la città di Giulianova.

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA NOI DONNEANANKE NEWS.

Le ragioni e i rischi della co-genitorialità

“Oggi non esistono più le famiglie di prima!”. Quante volte abbiamo sentito pronunziare questa frase? Dopotutto non c’è da stupirsi: si tratta del riflesso di una società in profondo mutamento, con matrimoni costantemente in calo, aumento dei divorzi e delle separazioni, e numero di figli sempre minore. Tanto minore che c’è chi, pur di farli a ogni costo, sceglie di giocare la carta della co-genitorialità, una tematica poco conosciuta qui in Italia, ma che è invece ben più popolare in nazioni − perlopiù anglosassoni − quali gli USA, il Canada e l’Australia. Si tratta, in poche parole, dell’usanza di crescere insieme dei figli ma allo stesso tempo mantenendo stretto il proprio stato di single o comunque senza impegnarsi troppo con l’altro genitore del figlio (o dei figli) in questione. I co-genitori tipicamente abitano in dimore separate, alla stregua di divorziati, ed essenzialmente scelgono di essere genitori senza però essere una coppia. Alla base di questa motivazione ci possono essere le scelte più disparate, ma che in fin dei conti sono da ascriversi alla volontà pura e semplice di avere dei figli pur non avendo avuto la possibilità (o l’intenzione) di incontrare la persona giusta con cui farli. Ad esempio sul sito https://www.co-genitori.it, un portale di annunci appositamente pensato per aspiranti co-genitori, una donna di 32 anni di Voghera ammette candidamente di non aver trovato l’uomo giusto, ma siccome al desiderio di avere un figlio non può rinunziare, allora cerca semplicemente un uomo con il quale metterlo al mondo e crescerlo. Ovviamente non si parla nè di matrimonio, nè di convivenza, nè di amore e cose del genere: tutti concetti banditi nella co-genitorialità pura, che in casi estremi si riduce alla pura e semplice intenzione di mettere al mondo un figlio, senza nemmeno crescerlo. Sempre sul portale sovracitato si possono infatti consultare gli annunci di donne alla ricerca, semplicemente, di donatori di sperma (ovvero a uomini che le fecondino), così come di uomini che lo vanno fieramente offrendo, sottolineando nell’annuncio che sono già padri di 3-4 figli come minimo, se non di decine e persino centinaia. Tanto che problema c’è? Basta donare lo sperma e sei genitore....Sì, ma l’essere genitore non si limita (tipicamente) all’atto della pura e semplice eiaculazione, ma anche della crescita e dell’educazione dei figli, o almeno così la pensa il senso comune. Un senso comune che può essere nondimeno confermato dalla scienza e dalla giurisprudenza in materia, di cui chi decide di imbarcarsi in scelte di simile co-genitorialità dovrebbe essere bene al corrente, a meno che non voglia evitare anni di frequentazione di tribunali. Il rischio che di fatto si corre è proprio quello che il figlio di cui non si è mai fatta conoscenza − o che comunque si è trascurato − una volta diciottenne trascini il padre in tribunale chiedendogli i danni. Anche morali ed esistenziali. Mettiamo il caso di una donna, che chiameremo Giusy, una quarantenne realizzata dalla sua vita professionale, ma che nella sua vita ha conosciuto un uomo peggio dell’altro, ragione per cui non ha potuto fino ad ora avere un figlio, che invece vorrebbe avere con tutto il cuore. Dopo l’ennesima visita ginecologica, il dottore la mette alle strette: il bambino o lo ha nell’immediato o lo avrà solamente nei suoi sogni; ma, rimanendo sempre in ambito onirico, dato che invece l’uomo dei suoi sogni − con il quale innamorarsi, sposarsi o almeno andare a convivere, con cui fare dei figli e vivere una love story da film in uscita a San Valentino − Giusy non l’ha trovato in quarant’anni, la probabilità di trovarlo subito subito è statisticamente pari a quella di vincere un terno al Lotto. O forse anche inferiore. Pertanto poniamo caso che si iscriva al sito di cui ho scritto sopra, e lì conosca Mirko, un misterioso trentenne il quale − con lo stesso spirito altruistico di una Onlus − dona litri e litri di sperma alle donne nella stessa condizione di Giusy, che dopo anni ed anni e a causa dell’infinita generosità di Mirko, finalmente rimane incinta e partorisce una bellissima bambina che chiamerà Ambra. Evviva, evviva! Ma la storia non finisce qui, perchè la piccola Ambra, che cresce e cresce fino a diventare una graziosa ventenne, non si dà però pace all’idea che il padre la possa aver concepita e poi nemmeno vista crescere, e che − ancora oggi − non è presente nella sua vita. Dopo l’ennesimo tentativo di farsi dire nome e cognome del padre, Giusy − oramai giunta alla sessantina − cede all’impeto e all’insistenza della figlia ventenne, confessando nome, cognome ed età del padre di Ambra. Mirko nemmeno rammentava che Giusy conoscesse il suo cognome, dato che l’aveva vista una sola volta. Ma quella sola volta che si erano visti egli aveva portato con sè e quindi mostrato a Giusy i risultati delle sue analisi di laboratorio, che ella stessa aveva preteso che le venissero mostrate al fine di accertarsi, giustamente, se Mirko fosse sano come sosteneva o se invece avesse qualche patologia (venerea e non), e ovviamente sui risultati delle analisi c’era scritto il cognome di Mirko, un cognome che sarebbe poi rimasto sempre impresso nella mente di Giusy, e che ora anche Ambra conosce. Quest’ultima ipotizza bene di rivolgersi ad un avvocato al fine di trascinare il padre in tribunale, addossandogli la colpa del suo attuale stato depressivo e − più in generale − della sua insoddisfazione verso l’esistenza, pretendendo dunque un maxi risarcimento. Giusy dapprima cerca di scoraggiare Ambra ad adire le vie legali, ma la ragazza sa come reagire, e facendo una scenata spiega alla madre che nell’eventualità in cui ella non le dia i mezzi economici per poter intraprendere l’azione legale, ella provvederà al pagamento della parcella in altro modo...al che Giusy cede nuovamente e decide di accompagnare Ambra da un avvocato (ed ovviamente di pagargli la parcella). L’avvocato, studiata bene la questione, consiglia di farsi affiancare da uno psicologo in qualità di consulente tecnico di parte (CTP), al fine di provare la connessione causale tra l’assenza del genitore e il danno psicologico ricevuto per tale causa, e quindi indirizza mamma e figlia nel suo studio. Arrivate lì ed esposto dunque l’accaduto allo psicologo, questi conviene con il dire che effettivamente lo stato abbandonico in cui Ambra è stata lasciata − accentuato dal fatto che Giusy, dopo le innumerevoli delusioni amorose, non si è poi più trovata un partner fisso, che potesse dunque anche fare da padre ad Ambra − possa coincidere con l’eziopatogenesi dello stato depressivo in cui Ambra versa, uno stato depressivo che limita fortemente la sua vita (in quanto ella non sta dando più esami all’università, non è in grado di lavorare, esce poco e non ha un ragazzo....) e che era rimasto latente fino alla maggiore età, periodo in cui invece ha fatto la sua comparsa, considerato anche che l’assenza del padre non ha potuto permettere ad Ambra di identificarsi con il genitore di sesso opposto, le ha causato stati disforici persistenti poichè il non conoscere il padre è stata per lei come una ferita sempre aperta....Tutte cose che comunque sono facilmente confermabili dal senso comune, oltre che dalla letteratura in materia. Ma mettiamo il caso anche che Ambra abbia dimenticato di raccontare un dettaglio allo psicologo, e cioè il fatto che si è da poco lasciata con il suo fidanzato, Angelo, che tanto angelo non era proprio: l’aveva infatti lasciata per mettersi con la sua migliore amica. E da quel giorno Ambra non ha fatto altro che barricarsi in casa e piangere notte e giorno, finendo così con il soffrire di depressione. Ovviamente il giudice non ne sa niente della questione di Angelo, e ritiene appunto che lo stato depressivo di cui Ambra soffre − che intanto è stato anche comprovato dal CTU tramite la somministrazione del test BDI (cioè il questionario sulla depressione di Beck) e da un relativo colloquio clinico − sia in toto riconducibile all’assenza di Mirko in qualità di genitore. Perchè i figli non sono solo di chi li fa, ma anche di chi li cresce. E dunque la causa si conclude con Mirko condannato al risarcimento economico dei danni psicologici inferti ad Ambra, ma anche di quelli morale ed esistenziale. Morale della storia? Meglio non farsi prendere dall’entusiasmo di diventare co-genitori a tutti i costi, ma procedervi solamente come ultima spiaggia, e in ogni caso sempre e solo dopo essersi informati precisamente a riguardo. Intanto però consiglio a tutti i lettori di consultare gli annunci presenti sul sito di cui ho scritto prima, a causa del loro (involontario) lato comico. Non è un caso trovarvi, ad esempio, donatori di sperma il cui entusiasmo di aiutare le donne ad avere figli è secondo solo a quello che Madre Teresa provava nell’aiutare i lebbrosi, che invitano persino ad essere scelti in base alle loro adoniche qualità fisiche: ad esempio in un annuncio qualsiasi − e ce ne sono tanti simili al presente − si può leggere di un donatore che pubblicizza i suoi ottimi geni vantandosi di essere alto 1,85 e con un fisico atletico. Ma che si scorda di accennare ad altre caratteristiche, come il titolo di studio e le condizioni economiche (che comunque sono in buona parte determinate dal patrimonio genetico). Ma tanto, anche se si è disoccupati e con la terza media, che problema c’è se si ha la fortuna di essere alti 1,85 e con un fisico atletico?

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWS E NOI DONNE.

Competitive dieting: da gioco ad anticamera dell'anoressia

Le sfide hanno sempre il loro fascino, permettendo (potenzialmente) di capire − se non anche superare − i propri limiti e di poterci porre al di sopra degli altri: sfidarsi è dunque la via più accessibile per vincere se stessi e il mondo intero. Ma è questa volontà di prevaricazione che in fondo diventa perversa, arrivando persino a mettere in gioco la vita stessa pur di dimostrare il valore che abbiamo. O che pretendiamo di avere. E adesso tratterò proprio di un gioco, un gioco un po’ particolare, che di valore ne ha ben poco, ma tuttavia abbastanza per far nascere in giovani donne (ma anche nelle meno giovani) quello spirito competitivo reo di trasformare la vita in un inferno. Quella stessa vita giudicata come sacrificabile a favore di un’apparenza perfetta. Non è un caso se gioco, apparenza e perfezione sono concetti importanti per le teeneger, per le giovani di oggi che appunto giocano ad apparire perfette, nei termini − ovviamente − di ciò che la società decreta sia perfetto per le ragazze nate nel nuovo millennio. Un aspetto esteriore sublime, un corpo mozzafiato, una silhouette da dive di Hollywood: è questo che la società − per mezzo dei suoi nunzi, i mass media − fa passare per perfezione nell’ambito dell’universo femminile. Che poi occorra utilizzare qualsiasi mezzo, imboccare qualsiasi strada pur di ottenerlo, non è un discorso carico del dovuto appeal. Di certo però l’appeal non manca al competitive dieting, un “gioco” che sa molto di Sex and the City, di brava ragazza perfettina e annoiata, e che, se scappa poco poco di mano, spalanca le porte all’anoressia. Le regole del gioco sono molto semplici e alla portata di tutte: basta sentirsi con una o più amiche per poi dare il via alla sfida a chi perde più peso. Ogni chilo perso è un punto, dunque − al pari dei giochi da tavolo − si fissa una data in cui il gioco finisce e la vittoria va all’amica/concorrente che ha totalizzato più punti, oppure si stabilisce direttamente un traguardo fatto di punti a cui dover arrivare e così vince la giocatrice che ci arriva per prima (ovvero la quale per prima perde quel prestabilito quantitativo di chili) o ancora vince chi entro un certo numero di settimane pesa di meno....Insomma, si tratta di un gioco che in teoria permetterebbe molte modalità e tante varianti, benchè lo scopo rimanga sempre uno, netto e imprescindibile: perdere peso. «D’altra parte che male ci sarebbe se facessi una gara con le mie amiche a chi (ri)trova la giusta linea per prima?» potrebbe interrogarsi la teenager tipo interessata al presente gioco, ed è proprio questo il problema: all’inizio viene vista come un’iniziativa del tutto innocente, non solo priva di rischi, ma perfino utile se permette di ottenere quella tanto agognata perfezione fisica in grado di poter elargire a piene mani centinaia di reactions su Facebook, migliaia di follower su Instagram e Snapchat e infiniti sogni di vita da celebrità. Troppo bello però, troppo idilliaco: i rischi, invece, ci sono eccome, solo che sono nascosti. Al pari di quando si iniziano ad assumere stupefacenti − mettiamo caso anfetamine − e lo si fa per “divertirsi” di più con gli amici ai party, affinchè si possa reggere l’effetto dell’alcol, per poter sopportare meglio festival e/o rave che vanno avanti anche oltre 12 ore consecutive....Di certo allorchè si comincia non si pensa minimamente alla malaugurata evenienza di arrivare a soffrire di dipendenza da sostanze, altrimenti non si comincerebbe nemmeno. Nel caso del competitive dieting, si apre di diritto la strada all’anoressia, che non è altro che un competitive dieting giocato pesante, tant’è che dal gioco alla psicopatologia il passo è breve, a maggior ragione ora che siamo alle porte della stagione estiva, e tante ragazze fanno i salti mortali per riuscire a ritrovare al più presto la linea da esibire dal vivo sulla spiaggia e − cosa più importante − online sui social e le app di messaggistica istantanea. Un gioco pericoloso, dunque, questo competitive dieting, che i genitori e i docenti farebbero bene ad approfondire, anche perchè è compito loro il far cessare alle ragazze di giocare e farle diventare delle vere e autentiche Donne, con tutte le soddisfazioni e le responsabilità associate. E tutto sommato, se giocando si rischia la salute (e perfino la vita), il gioco non è più tale, poichè si trasforma in follia.

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWS E ITALIA STAR MAGAZINE.

Morire di fama a 28 anni

Si piange sempre quando muore una persona, si piange di più però se questa persona è giovane, ma si piange ancora di più se è una giovane star di livello mondiale. Nei giorni scorsi tutte le principali testate giornalistiche italiane ed estere hanno annunciato la prematura scomparsa di Tim Bergling, in arte Avicii, personalità di spicco e allo stesso tempo pionieristica della EDM in tempi in cui la stessa ancora non esisteva. Avicii muore come alfiere di una generazione che ha vissuto la nascita dell’EDM, ha vissuto l’affermarsi dei social network, delle piattaforme di streaming e − più in generale − di internet come cassa di risonanza per i brani contemporanei e ha vissuto il fenomeno dell’inarrestabile globalizzazione della musica elettronica. Non è un caso se la hit che gli regalò una fama planetaria, Levels − che ho avuto l’onore di ascoltare live alla Street Parade di Zurigo allorchè ancora non era stata pubblicata − era un brano che piaceva proprio a tutti: grandi e piccoli, di ogni età ed estrazione sociale, persino a chi non aveva mai ascoltato musica elettronica. Non è un caso se negli anni di suo maggiore successo circolava a macchia d’olio un meme che recitava “Welcome on YouTube, where every house song is made by Avicii”; non è un caso se i suoi brani furono i primi brani EDM a guadagnare visibilità in radio, nelle serate commerciali e addirittura nelle pubblicità televisive; non è un caso se in questi giorni il suo ricordo ha prodotto una catena senza fine di dimostrazioni di profondo cordoglio da parte dei fan, i quali hanno prontamente manifestato il loro attaccamento tramite milioni di post, hashtag...e anche qualche flash mob. Ma Tim, di milioni di fan, non ne voleva proprio avere: egli aveva infatti iniziato la sua carriera di produttore giusto per gioco, pubblicando i suoi brani, composti nella sua cameretta, su un blog musicale; da lì però ottenne molta visibilità e a quel punto il passo per il successo fu breve: Avicii venne già a 18 anni catapultato dall’intimità della sua dimora al posto dietro la consolle, sopra ai palchi e dinanzi alla folla urlante e osannante, inevitabilmente dato in pasto allo show business. Tutte cose che Tim ha fatto sempre molta fatica ad accettare a causa del suo temperamento assai introverso, timido e riservato, tant’è che ebbe tante difficoltà a salire sul palco e ad esibirsi dinanzi a folle oceaniche, in esibizioni che toccavano ogni punto del globo terrestre. Per accettare questa realtà nuova, Tim dovette ricorrere all’automedicazione, a bere (e pesante) prima di esibirsi: non è un caso se egli stesso abbia ammesso la sua dipendenza per l’alcol e che sia stato operato per la rimozione della cistifellea e dell’appendice. Forse sarà stato proprio l’eccesso di alcol a mettere fine alla sua breve vita, cessata il 20/4 a Mascate (Oman), ma forse non lo sapremo mai: a riguardo, la famiglia ha infatti preteso il massimo riserbo. E dunque la carriera di Tim Bergling, iniziata nell’intimità e nel calore della sua camera, circondato dall’affetto dei suoi cari, finisce nella camera di uno sterile e freddo hotel extralusso, le cui porte gli si erano aperte grazie al successo: quello stesso “successo per il successo” di cui aveva parlato e contro cui aveva puntato il dito. Ma come si fa a rifiutarlo? A maggior ragione se si è giovani e il successo piomba prepotentemente nella propria vita, carico com’è di numerosi argomenti a suo favore. In particolare, il successo è visto oggi − nella società odierna − come un valore fondante e imprescindibile, che strizza l’occhio particolarmente alle nuove generazioni. E così se sei famoso puoi (o almeno hai l’illusione di) avere tutto, al pari di un semidio, sei ciò di cui tutti parlano e quel che ognuno vorrebbe essere; se non lo sei, temi di essere uno sfigato, di non avere nulla per cui sia lecito vivere. Il successo è dunque il prodotto principale, il flagship, della società dell’apparenza, poichè l’apparenza PRETENDE il successo e allo stesso tempo ne è la conferma più lampante. Ma il successo − con tutte le aspirazioni che porta con sè − è anche un prodotto umano, presente in ogni società civile: già nell’antica Grecia vi erano gli atleti olimpionici, famosi alla stregua di Usain Bolt, di Tiger Woods e di Bubba Watson, e nell’antica Roma i gladiatori, famosi al pari dei moderni wrestler come Rey Mysterio, Hulk Hogan e Shawn Michaels. Dunque, cos’è che spinge nella nostra società a DOVER essere per forza famosi, anche al rischio di rimetterci la salute...e la vita, come nel caso di Avicii? Si può (e si deve) puntare il dito contro i mass media, che fungono da cassa di risonanza alla tanto agognata fama, ma si deve anche puntarlo verso un mezzo di comunicazione nuovo: i social. Che i social network − se male utilizzati (specialmente dai più giovani) − potessero condurre a gravi problemi psicosociali, è un dato di fatto, ancor più in quanto mettono i loro utenti nei panni non (solo) di semplici spettatori (come ad esempio la TV) ma di veri e propri attori. É proprio con social come Facebook, YouTube ed Instagram che nascono le nuove star, e questi strumenti sono proprio alla portata di tutti: ogni teenager, con una connessione a internet e un PC e/o uno smartphone hanno la possibilità di divenire famosi, anche se poi, in realtà, è sempre quell’uno su un milione che ce la fa. Come Avicii, che proprio grazie a un computer e a un blog (e i blog non sono nient’altro che i precursori dei social network) ha conosciuto il successo, l’ha vissuto, l’ha anche disprezzato, e per causa sua è morto. Una morte che però non sarebbe vana se ognuno di noi (specialmente se suoi coetanei o più giovani di lui) potesse realmente capire qual’è il vero, brutale, prezzo del successo.

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Poesie d’amore ed eros nel nuovo libro del dott. Eugenio Flajani Galli

Le rime hanno sempre qualcosa da comunicare. Tanto più ora che ci troviamo nel terzo millennio, in una società superficiale e materialista, che guarda poco o nulla al sentimento e all’interiorità. Ma i sentimenti, le emozioni e il flusso interiore di coscienza trovarono ampia trattazione nell’opera poetica greco-latina, per mano di autori quali Alcmane, Saffo ed Alceo, a cui si deve la paternità della poesia stessa, dato che essi furono tra i primissimi poeti della storia dell’umanità, almeno per quel che ne sappiamo noi oggi. Ed è proprio a questi autori e a queste opere che si ispira la nuova raccolta di poesie del dott. Eugenio Flajani Galli – psicologo, psicosessuologo ed autore di testi di psicologia e poesia – il quale ha sempre portato dentro di sè un ottimo ricordo dei versi antichi: «Quando frequentavo il liceo classico» spiega l’autore «leggevo, studiavo e imparavo a memoria poesie di autori quali Ovidio, Catullo, Tibullo, Alceo, Saffo, Orazio, Archiloco, Alcmane e tanti altri ancora; dopo essermi laureato, a 23 anni, in psicologia, li rileggevo di nuovo e mi accorgevo di quanto materiale psicologico vi si può trovare. Sì, perchè si tratta di versi che sanno sapientemente veicolare i sentimenti di amore, eros e passione che ancora oggi sono in grado di intrigare e far sognare uomini e donne di ogni età e nazionalità». L’amore, dunque – unitamente alla sua controparte più passionale, l’eros – è il grande protagonista di “Tutto l’Amore per Te”, il nuovo libro del dott. Eugenio Flajani Galli, che unisce l’apollineo dei versi in rima baciata con il dionisiaco delle passioni più primordiali della psiche umana. Tutto ciò corredato da contenuti artistici esclusivi, consistenti in artworks fotografici (vale a dire fotografie artistiche – sia fotoritoccate sia non – accompagnanti le poesie) e testuali (vale a dire composizioni artistiche formate da caratteri di testo appositamente combinati di modo da comporre immagini artistiche). Insomma, una raccolta di poesie da poter dedicare e far leggere alla persona amata, ma anche e sopratttutto al primo ed eterno amore della propria vita: se stessi.

Tutto l’Amore per Te è disponibile presso Amazon, Mondadori, Feltrinelli, Google Play, iTunes, IBS, Hoepli e tanti altri store, o richiedendone copia direttamente all’autore.

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I teenager al centro dell'ultimo convegno del Rotary

Giulianova - Si è dibattuto a lungo sulla condizione odierna dei nostri figli: appena usciti dall’età dell’infanzia, benchè non ancora adulti, i teenager oggi rappresentano una sfida educativa per qualsiasi genitore, insegnante, educatore ed adulto che se ne occupi. Il convegno “L’adolescente, questo sconosciuto!”, organizzato dall’associazione culturale Nuova παιδεία e in collaborazione con il Rotary Club Teramo Est, è stato di rilevanza nazionale per la città di Giulianova e per tutto l’Abruzzo, portando nella mattinata e nel pomeriggio odierni, un nutrito numero di professionisti nella sala convegni “Giacomo D’Antonio” dell’ospedale civile Maria Santissima dello Splendore. Psicologi, pedagogisti, avvocati e docenti universitari hanno offerto una visione multidisciplinare della condizione dei teenager, mettendone in risalto sia le caratteristiche e le peculiaità intrinseche sia i limiti e le attuali sfide in merito. Un argomento di particolare attualità è stato affrontato dal dott. Eugenio Flajani Galli − psicologo, psicosessuologo e saggista giuliese − il quale ha esposto gli odierni rischi a cui i nostri figli vanno incontro utilizzando le nuove tecnologie digitali, istruendo e consigliando inoltre sulle strategie da adottare per prevenire (o risolvere) tale abuso informatico. L’intervento del dott. Flajani Galli è stato preceduto − nella sessione pomeridiana − da quello dell’avvocato Rita Di Carlo, la quale si è occupata della tematica giuridico-legale, citando le principali norme in materia di tutela dei minori. Nella sessione diurna hanno invece preso parte i docenti dell’Università degli studi dell’Aquila Gabriele Gaudieri e Antonio Lera, i quali hanno rispettivamente parlato degli aspetti neurofisiologici del cervello adolescenziale − soggetto a importanti modificazioni plastiche macro e micro-strutturali − e della nuova condizione sociale della “generazione dei 2000”, che si trova oggi ad affrontare l’ardua sfida del continuo passaggio tra la realtà online e quella offline, e della conseguente loro differenziazione ed organizzazione.

ARTICOLO ESTRATTO DA ANANKE NEWS, IL FARO 24 E VOX PUBLICA.

Una rete...mortale − internet e i pericoli per i minori al centro del convegno “L’adolescente, questo sconosciuto!”

Un argomento di particolare attualità del convegno “L’adolescente, questo sconosciuto!”, tenutosi nella giornata di ieri presso la sala convegni “Giacomo D’Antonio” dell’ospedale civile Maria Santissima dello Splendore e organizzato dall’associazione culturale Nuova Paideia in collaborazione con il Rotary Club Teramo Est, è stato affrontato dal dott. Eugenio Flajani Galli − psicologo, psicosessuologo e saggista giuliese − il quale ha esposto gli odierni rischi a cui i nostri figli vanno incontro utilizzando le nuove tecnologie digitali, istruendo e consigliando inoltre sulle strategie da adottare per prevenire (o risolvere) tale abuso informatico. I millennials, infatti, vivono l’abuso della tecnologia informatica senza realmente possederne consapevolezza, e ciò può avere un impatto (fortemente) negativo sulle attività più salienti della vita del minore, quali la scuola, le attività extrascolastiche, la socializzazione con i pari....Questo quadro psicologico si può anche esacerbare traducendosi in vera e propria dipendenza dall’utilizzo di internet, una condizione psicopatologica denominata IAD (internet addiction disorder) e in costante crescita nelle nuove generazioni. Ma anche più pericolosa è l’eventualità in cui il minore si trovi nella condizione di essere adescato da malintenzionati − in particolar modo pedofili − che ne fanno la conoscenza tramite i numerosi social e le numerosissime chat (gruppi Whatsapp, Telegram, Messenger...) e che inizialmente tendono a spacciarsi per dei loro pari, per poi invece avanzare pretese nei loro confronti e cercare di farne conoscenza allettandoli tramite varie promesse ed offerte di denaro o altri premi (iPhone, videogiochi, tablet, eccetera). L’adescamento dei minori non è tuttavia limitato alle app di messaggistica istantanea e ai social network, bensì può avvenire anche mediante le chat interne a numerosi videogiochi multiplayer online, ovvero a cui si può giocare connessi alla rete e con altri videogiocatori connessi in quel determinato istante...tra cui ovviamente ci possono essere anche i pedofili, che in tal modo utilizzano l’argomento videoludico come mezzo attraverso cui iniziare delle conversazioni con i minori per poi arrivare a chiedergli l’amicizia su Facebook, lo scambio di numeri di cellulare, e infine l’incontro reale al fine di poter “giocare insieme dal vivo”. Ma oltre al pericolo dei pedofili, i minori hanno da temere anche quello rappresentato da un determinato genere di coetanei: i cyberbulli. Essi sono così chiamati in quanto sono dei bulli che però utilizzano la tecnologia al fine di porre in essere le loro condotte bullizzanti: ad esempio schernendo pesantemente le loro vittime sui social, arrivando persino a minacciarli e vessarli in continuazione. Nella società moderna e industrializzata d’oggi è tra l’altro pressochè inutile la distinzione tra bulli e cyberbulli, in quanto qualunque bullo non si fa di certo scappare l’occasione di utilizzare la rete per bullizzare le sue vittime, a maggior ragione in quanto i social e le varie chat offrono una immensa cassa di risonanza per le bravate del bullo, che può contare dunque su una platea di spettatori potenzialmente di gran lunga superiore rispetto a quella che avrebbe commettendo le stesse azioni (solo) in ambienti più tipici come la scuola o il parco. E purtroppo il cyberbullismo è un fenomeno che fa male. Molto male. Infatti può portare fino al suicidio della vittima di tali “stalking informatici”, come evidenziano d’altra parte i numerosi casi di cronaca nera nazionali e internazionali. Infine c’è da sottolineare che i rischi per i minori non si limitano alla parte “visibile” della rete, ma sono presenti con particolare pericolosità nel deep web, ovvero l’insieme di quei siti che − a causa della loro peculiare struttura con cui sono realizzati − non sono direttamente rintracciabili utilizzando i normali motori di ricerca. Questo espediente viene adottato, nella quasi totalità dei casi, con l’apposito intento di realizzazione di siti internet idonei ad ospitare contenuti ed attività illegali quali vendita di oggetti proibiti (armi, sostanze stupefacenti, documenti falsi, eccetera), raket, circolazione di materiale pedopornografico, propaganda criminale/terroristica, e così via. Il deep web è tuttavia raggiungibile utilizzando un apposito software, Tor, che insatura una connessione internet idonea al raggiungimento dei contenuti ospitati dal deep web, un’operazione facilmente realizzabile dai teenager di oggi, i quali si destreggiano (apparentemente) senza problema alcuno nei meandri della tecnologia, ma senza nemmeno conoscere veramente quali rischi corrono passando così tanto tempo sulla rete. E il genitore che mette così candidamente nelle mani del proprio figlio uno smartphone, un computer, un tablet connesso alla rete lo sa quali sono i rischi che corre e come fare per contrastarli? Al giorno d’oggi ogni genitore dovrebbe avere chiaro il concetto che mettere nelle mani dei loro figli un device connesso a internet senza prima avergli illustrato i pericoli in cui potrebbe incorrere connettendosi al web, è come mettergli nelle mani le chiavi dell’auto senza prima avergli insegnato come si guida. Delle leggerezze che possono costare caro. Come a Carolina, quattordicenne di Novara suicidatasi a seguito delle costanti, perseveranti, vessazioni dei cyberbulli. O come a Chris, ragazzo inglese deceduto dopo 12 ore di gioco all’Xbox. O come a tutti gli altri millennials assuefatti dalla realtà virtuale, la cui esistenza è quotidianamente immersa nella imperante, onnipresente, rete, che oggi più che mai è tutto e significa tutto per loro. Nonostante certe volte gli arrivi a chiedere qualcosa in cambio: la vita.

 

ARTICOLO ESTRATTO DA IL CENTRO.

Convegno su disabilità e scuola

Il quotidiano on line Anankenews.it, l’associazione di Pedagogia “Nuova Paideia”, insieme al Dipartimento Mesva (Medicina clinica, sanità pubblica, scienza della vita e dell’ambiente), organizzano un convegno nazionale dal titolo “Nuovi orientamenti nella disabilità a scuola, dalla diagnosi al trattamento condiviso”, rivolto sia agli studenti del dipartimento Mesva dell’Università dell’Aquila – valevole come attività Afo, attività formative opzionali – sia a educatori, assistenti sociali, psicologi, operatori sociali (valido come corso di aggiornamento). Il convegno è stato organizzato dal professor Gabriele Gaudieri, pedagogista, dalla dottoressa Silvana Di Filippo, assistente sociale e dal giornalista Massimo Mazzetti. 
Il convegno si svolge domani in due sessioni – una mattutina dalle 9 alle 13 e una pomeridiana dalle 14 alle 17,30 – nel dipartimento Mesva blocco 11/A aula D2.30 primo piano, piazzale Tommasi a Coppito. Ecco i relatori e gli argomenti trattati: professor Enzo Sechi“La salute mentale in età evolutiva, programma riabilitativo, intervento terapeutico e modelli pedagogici nella salute mentale”; professore Antonio Lera “Il digitale e la best nel ragazzo con disabilità”; dottoressa Sara Frascarelli “Strumenti compensativi, misure dispensative e strategie dell’inclusione del bambino con disabilità”; dottoressa Teresa Di Meco “La digitalizzazione tra i ruoli del nuovo attivismo pedagogico”; professor Gabriele Gaudieri “L’ausilio della robotica per la facilitazione dell’apprendimento dei ragazzi autistici”; dottor Massimo Mazzetti “Normative recenti su bes e inclusione”; dottoressa Stella Chiavaroli “Ambienti multimediali nella disabilità motoria. Verso quale assistenza educativa inclusiva?”; dottor Riccardo Romandini “Disabilità in ambito scolastico, la persona prima di tutto”; dottor Eugenio Flajani Galli “Sessualità e disabilità”; operatrice accoglienza Sara Beltrame “Strategie di accoglienza e terapia sul piano transculturale dei giovani immigrati”; Marta Travaglini “Analisi sui prodromi del disagio adolescenziale”. Il convegno è valido per crediti formativi universitari.

 

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWSFIDELITY NEWS ED ULTIMA VOCE.

L'acqua di Chiara Ferragni: per placare la sete di apparenza e vanità

Non si tratta di acqua santa, non ha particolari benefici per la salute, non contenendo chissà quale principio attivo miracoloso, nè nessun’altra “sorpresa”. Non è, dunque, nemmeno amara...ma ciononostante costa. Otto euro al litro in supermarket. Insomma, è lo stesso prezzo che si può trovare nelle più famose discoteche di Ibiza, in cui si paga anche fino a 85 € per il solo ingresso. Si tratta dell’acqua di sua maestà la reginetta di Instagram Chiara Ferragni, una bibita (chiamarla “acqua” potrebbe suonare riduttivo) che deve il suo bel prezzo grazie alla griffe della ben nota influencer, la quale − da brava influencer − influenza persino il mercato delle acque minerali in bottiglia, arrivando a far pagare a peso d’oro un’acqua che di per sè non ha nulla di speciale. Però ha la griffe. Sì, la griffe “Chiara Ferragni”, con tanto di vistoso logo con fascinoso occhio azzurro glitterato in stile geroglifico. Ma non finisce qui: la straordinaria acqua minerale realizzata da Chiara Ferragni per Evian ha anche un packaging realizzato ad arte: sono infatti stampigliate sull’etichetta diverse “decorazioni” realizzate grazie a una ispirazione molto probabilmente nata in lei dal dover vedersi davanti, giornalmente, la vast(issim)a collezione di tatuaggi più o meno tribali, più o meno cartooneschi, più o meno guardabili, stampata addosso al marito. Questo nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore potrebbe trattarsi di un’ispirazione nata semplicemente a fronte della visione di scarabocchi realizzati dal figlioletto Leone in cerca di ispirazione. Ma tutto ciò basta e avanza per porre sul mercato un prodotto senza alcun valore commerciale, poichè l’acqua potabile ha un costo di produzione pari a zero e gli unici costi di rilievo che un’azienda produttrice d’acqua sostiene riguardano il confezionamento e la distribuzione del prodotto. Oltre naturalmente al marketing. Altrimenti chi sarebbe così suicida da pagare l’acqua otto euro al litro in un supermarket? Ecco, dunque, che entra in gioco il fattore VIP e l’influenza sociale che gli stessi possono esercitare. Un’influenza molto efficace, ma allo stesso modo di basso livello, in quanto non ha particolari argomenti a suo favore per influenzare atteggiamenti e condotte altrui. Però, dal momento che una persona che compra un’acqua di questo genere fa un ragionamento del tipo: “se è l’acqua della Ferragni allora qualcosa di speciale CI DEVE ESSERE PER FORZA” oppure “bere l’acqua della Ferragni FA CHIC E RENDE IMPORTANTI”, allora vuol dire veramente che è un tipo di influenza che funziona. Ponendo a modello quello della persuasione di Petty e Cacioppo, si direbbe che si tratta di un tipo di persuasione che intraprende una via periferica, cioè un tipo di via, di modalità comunicativa, per lo più extrarazionale, che dunque si basa su euristiche (ragionamenti molto semplici che si basano spesso su preconcetti e che vanno dritti al punto) e sentimenti. E quindi, se bevo l’acqua di Chiara Ferragni, mi sento anche io un po’ più VIP, indipendentemente dal fatto che sia lecito o meno pagarla otto euro al litro. Sì, perchè se dovessimo fare quest’altro ragionamento, molto più complesso e difficoltoso, dovremmo innanzitutto informarci − in materia d’acqua − a livello alimentare, quindi: quali sono le sostanze presenti in una data acqua? Quali sono quelle che fanno bene e quali quelle che fanno male? Mi farebbero bene oppure male in funzione del mio stato di salute e dei miei acciacchi? E, in ultimo, quanto può valere economicamente un’acqua di questo tipo? Ovviamente il 99,99% della popolazione non si porrebbe tutti questi interrogativi, preferendo lasciarsi convincere dalle varie pubblicità − molte delle quali con VIP che fanno da testimonial delle varie “acque della salute” − che la tal acqua è ottima poichè, ad esempio, è “l’acqua di Miss Italia” e bevendola ci si depura e si fa “plin plin”, oppure che si tratta dell’acqua scelta dalla Nazionale di Calcio e pertanto “fa sentire in forma”. Tutti slogan molto generali e superficiali, che però ovviamente non garantiscono di diventare belle come Miss Italia o in forma come dei calciatori della Nazionale di Calcio Italiana (e, dati i risultati recentemente collezionati da quest’ultima, non parrebbe nemmeno auspicabile bere la stessa acqua della Nazionale). Il discorso, ora, è che se le pubblicità di Cristina Chiabotto che esalta le proprietà “depurative e diuretiche” di Rocchetta, e di Alex Del Piero che sottolinea le qualità “toniche” (?) di Uliveto sono finalizzate a mettere in risalto presunti pregi salutistici di tali acque per mezzo di illustri VIP, con l’acqua Evian by Chiara Ferragni si passa ufficialmente il confine della razionalità, arrivando a indurre a comperare un’acqua per il semplice fatto che è promossa da Chiara Ferragni e c’entra (qualcosa) con lei. Vi sono il suo marchio e i suoi disegnini stampati sopra, è un po’ come se fosse un pezzo di lei. Bere questa acqua non serve affinchè faccia bene in un modo o nell’altro, ma poichè è trendy, è cool, è da ricchi. Soddisfa, insomma, la sete di apparenza e vanità. Un po’ come se bevendola si entrasse in contatto con Chiara, alla stregua di come si beve(va) il vino in chiesa:

 

“Prendete e bevetene tutti: questo è il calice dei miei guadagni, per i miei nuovi ed eterni followers, versato per voi e per tutti (quelli che se la possono permettere) in remissione dei mancati like. Fate questo in venerazione di me”.

 

Ma ora sorge spontanea una domanda: “Perchè non utilizzare la ben più comune, ecologica (perchè non vi sono spese di trasporto e imballaggio, essendo a km zero), economica acqua del rubinetto?”. Pur essendoci stato il referendum nel 2011 riguardante la privatizzazione dell’acqua, e nonostante abbia massicciamente vinto il sì per l’acqua pubblica, purtroppo non è cambiato tanto: l’acqua del rubinetto − che è anche maggiormente sicura di quella privata, essendo sottoposta a molte e più severe verifiche − è snobbata da larga parte del mercato, che preferisce invece quella in bottiglia, che però non ha nulla in più: semmai ha di meno dalla parte sua. Però una cosa in più ce l’ha, ed è il costo: dunque si tende a fare il ragionamento − erroneo − secondo il quale “se un prodotto costa di più, vale di più”, ma anche “se io valgo, devo comprare pure qualcosa che valga [cioè costi]”, quindi non ci si accontenta della bistrattata acqua del rubinetto. Ed ecco che in quest’ottica anche l’acqua di Chiara Ferragni vale. Otto euro al litro.

E mentre Fedez se la prende contro il Codacons, “reo” di aver puntato il dito contro il prezzo a cui viene venduta l’acqua Ferragni, c’è però una cosa importante da ricordare: tutta quella gente, al mondo, che l’acqua − non quella griffata, ma una semplice acqua pulita e potabile − se la può solo sognare.

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Cura − Una parola del nostro tempo: a Giulianova l’incontro con Marco Trabucchi

Chi lo dice che con gli anni che passano si vive male? Vivere bene si può. Anche a 100 anni. É quanto affermato sabato dall’illustrissimo prof. Marco Trabucchi, veronese tra i massimi luminari in tema di demenze, nonchè docente ordinario dell’Università di Roma Tor Vergata e presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria, ovvero la scienza che si occupa delle condizioni di salute psico-somatica della terza e quarta età. Un’affollata sala del loggiato sottobelvedere ha così accolto con grande piacere e interesse il convegno in cui il prof. Trabucchi ha fatto da Cicerone d’eccezione nell’illustrare i principi psicologici, fisiologici e biologici regolanti la terza e quarta età, ma anche e soprattutto nello svelare i segreti per affrontare e vivere meglio nonostante l’avanzare dell’età. Sì, perchè se ci si impegna sia sul lato pratico sia su quello teorico per definire compiti e scopi di relazioni efficaci, la cura può attivamente porsi come attività “salvifica” in vista di un miglioramento delle condizioni di vita dell’individuo, a prescindere dalla sua età anagrafica.

Il convegno, ideato e organizzato dal prof. Antonio Lera, in collaborazione con il Rotary Club Teramo Est, il Rotary Club Pescara Ovest Gabriele D’Annunzio, il Rotary Club Lanciano, il Rotary Club L’Aquila Gran Sasso e le associazioni culturali La Luna di Seb e Agape − Caffè Letterari d’Italia e d’Europa, ha inoltre concesso l’occasione al prof. Trabucchi di presentare l’ultimo dei suoi 20 libri, “CURA − UNA PAROLA DEL NOSTRO TEMPO”, focalizzato sulla cura delle problematiche prettamente legate alla terza e quarta età, con particolare riferimento alle patologie neurodegenerative (Alzheimer, Parkinson...) e alle dirette conseguenze che possono derivare da tali condizioni mediche. Il testo presentato dal prof. Trabucchi ha suscitato da subito curiosità nel pubblico presente ed ha altresì ispirato gli ulteriori argomenti su cui ha vertito il convegno nelle persone di Antonio Lera, Eugenio Flajani Galli, Nicoletta Verì, Gaetano Luca Ronchi, Siriano Cordoni e Gioia Salvatore. Nello specifico il prof. Antonio Lera ha fatto da moderatore d’eccezione all’intero convegno, mentre il dott. Eugenio Flajani Galli − psicologo, psicosessuologo e autore giuliese − si è soffermato invece sugli aspetti mnemonici dell’invecchiamento, evidenziando il ruolo adattivo che le associazioni mnemoniche possono rivestire nell’aiutare la vita quotidiana degli individui “in là con gli anni”, ma anche le peculiarità proprie dello stile di vita della quarta età; gli altri relatori hanno infine disquisito del rapporto tra avanzare dell’età e stato di salute psicofisico.

Dopo la presentazione a latere del master in R.E.N.P., la serata si è conclusa in un simposio − ovvero una cena con dibattito relativo al convegno tenutosi in precedenza − a cui hanno partecipato i relatori tutti nell’incantevole cornice di Giulianova Lido. Una città le cui bellezze artistiche e naturali hanno molto colpito il prof. Trabucchi, il quale si è da subito “innamorato di una sì ridente e accogliente cittadina”.

ARTICOLO ESTRATTO DA LA NOTIZIACAVALIERE NEWS, ANANKE NEWS, WALL NEWS 24, TM NOTIZIEVIRTÚ QUOTIDIANE, INFORMAZIONE.IT UDITE UDITE!

 

I Salotti del Benessere sbarcano a Giulianova

 

Il benessere è quello stato psicofisico che non dovrebbe mai mancare nella vita di ogni giorno, a prescindere dall’età, dalle condizioni socio-economiche e da quelle interindividuali. L’unico prerequisito per raggiungerlo e mantenerlo giorno dopo giorno? L’essere sempre adeguatamente informati e aggiornati sull’argomento, affinchè sia possibile evitare tutta quella serie di criticità che potrebbero minare il nostro stato di benessere, e seguire invece i preziosi consigli che i professionisti della salute possono dispensare per venire incontro alle esigenze, salutari, della popolazione abruzzese. É con questo intento che il Rotary Club Teramo Est, l’associazione culturale ἀγάπη - Caffè letterari d’Italia e d’Europa e l’AIP (associazione italiana di psicogeriatria) hanno deciso di dare vita ai “salotti del benessere”. Un ciclo di convegni che vede protagonista assoluta la salute in tutte le sue forme e sfaccettature, da quelle prettamente mediche, passando per quelle psicologiche e arrivando anche a toccarne i risvolti etici e sociali. “Sì, perchè la salute è un diritto fondamentale di ogni individuo, sancito anche dalla nostra Costituzione” afferma il prof. Antonio Lera, scrittore e neurologo dirigente medico dell’ASL di Giulianova, nonchè presidente del Rotary Club Teramo Est e dell’associazione culturale ἀγάπη - Caffè letterari d’Italia e d’Europa. “Ecco perchè ho deciso” − continua il prof. Lera − “di portare qui a Giulianova i salotti del benessere, a cui tutta la cittadinanza è cordialmente invitata a partecipare”. Ed è nella giornata di venerdì che si darà dunque inizio ai salotti del benessere, con l’interessante convegno “La salvaguardia del nostro organismo in una sana prevenzione cardiovascolare e psicologica: abitudini e risvolti emotivi”, che si terrà a partire dalle ore 16 all’interno del ristorante Inclusive Caffè di Giulianova Lido (tel. 0858027998) e che vedrà la partecipazione di noti medici e psicologi locali, tra cui − oltre al prof. Lera − anche il musicista e cardiologo dirigente medico dell’ASL di Teramo, dott. Ugo Minuti, e dello psicologo, psicosessuologo e autore giuliese, dott. Eugenio Flajani Galli. “Devo ammettere che non è per nulla semplice portare in una piccola realtà come la nostra eventi di questo calibro” − commenta il dott. Flajani Galli − “tuttavia abbiamo lavorato duramente per realizzare i salotti del benessere e proporli a costo zero sia per le amministrazioni locali sia per i cittadini stessi, e i risultati si vedono: i posti disponibili stanno terminando velocemente, dunque consiglio di contattarci il prima possibile ai numeri 3478335411, 3779005413 e 0858027998 prima che gli stessi si esauriscano definitivamente”. Tuttavia il dott. Flajani Galli poi rassicura: “Non vi preoccupate poichè, data la portata dell’evento, abbiamo appositamente selezionato un locale di grandi dimensioni e con un grande parcheggio gratuito, pertanto anche chi non si è prenotato potrà lo stesso partecipare al convegno, benchè comunque gli attestati di partecipazione non siano garantiti in quanto in numero limitato”. L’ingresso all’evento è infatti gratuito, così come l’assegnazione dell’attestato di partecipazione − seppur in numero limitato − e a seguire, per chi vorrà assaggiare le specialità culinarie dell’Inclusive Caffè, vi sarà la cena ufficiale dei salotti del benessere (a pagamento) in cui sarà possibile incontrare personalmente i relatori e interloquire con gli stessi sui temi del convegno. “Consiglio a tutte le persone interessate di venirci a trovare venerdì, per il semplice fatto che il benessere non è un optional: è un diritto a cui non è possibile rinunziare, e con i salotti del benessere sarete tutti in grado di rivendicare questo vostro diritto fondamentale” conclude il dott. Flajani Galli.

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWSIL FARO 24, CAVALIERE NEWS E RADIO AZZURRA.

#DEMAGOGIA 2.0: LA POLITICA DEI NOSTRI GIORNI

Noi abruzzesi sappiamo bene cosa ci attenderà domenica prossima: il consueto appuntamento con le urne, che porrà la parola “fine” a un estenuante inverno di campagna elettorale, mai prima d’ora − almeno per le regionali d’Abruzzo − costruita così freneticamente sul web e che ha visto così prepotente l’affermazione della demagogia come mezzo di propaganda elettorale. Un mezzo che purtroppo convince decine e decine di milioni di elettori, finendo con il porre al governo proprio chi la demagogia l’ha utilizzata più sfrenatamente. E che continua a utilizzarla. Esempio lampante ne è la continua presenza dell’on. Salvini nella nostra terra: nelle strade, nelle piazze, nelle chiese, nei mercati...magari anche nel giardino di casa se questo serve per racimolare voti in più. Tutto appositamente pianificato per generare contenuti da dare in pasto alla rete, alimentando quella che oramai è una politica fatta sempre più di dirette Facebook, di storie Instagram, di hashtag vani e tweet sterili. Tutta apparenza a scapito della sostanza. Un’apparenza che porta a far partorire alla nostra mente semplici associazioni mentali del tipo “Salvini è venuto tante volte in Abruzzo, gli piace la nostra regione, va sempre ad incontrare la gente...mi pare una brava persona, allora perchè non dargli il voto?”. Ma il contrario della demagogia sono i fatti: a quel punto questa non regge più, finendo con lo sgretolarsi e farsi sostanza eterea come le tante chiacchiere che l’hanno generata. E di fatti se ne sono visti pochi, eccezione fatta per gli onnipresenti selfie: quelli non mancano mai negli incontri di Salvini con la cittadinanza, come se egli non fosse un ministro ma qualche sorta di VIP, di uomo di spettacolo. Ora, se fosse appunto un famoso attore o cantante o dj o calciatore o tronista, non ci si stupirebbe che si comportasse in quanto tale, ma dato che appunto è un ministro e vicepremier, ci si aspetterebbe quantomeno l’opportunità di instaurarci un dialogo da elettore a politico, anche uno molto semplice, ad esempio: “Quand’è che entrerà in vigore la flat tax, come era stata promessa in campagna elettorale l’anno scorso? Se il problema è l’assenza di fondi, perchè non ottenerli riscuotendo l’Ici che la Città Del Vaticano deve versarci per i suoi immobili siti in Italia?”, così come tante altre domande che parrebbe più che lecito poter porre a un ministro e vicepremier. Ma ciò non è possibile, poichè con Salvini ci si possono fare solo i selfie: non c’è dialogo, ma solamente apparenza. Sì, perchè i selfie − che vengono puntualmente postati sui social − contribuiscono a generare quel sentire comune, quella rappresentazione sociale del tipo “ma quant’è simpatico Salvini, quanto è disponibile! Sta sempre in mezzo alla gente, si vede che è uno di noi...votiamolo”. E guai a voler, dopo il fatidico selfie, cercare di instaurare un dialogo con Salvini: si viene prontamente allontanati dall’imponente dispiegamento di forze dell’ordine che gli fanno da scorta. Una scorta immensa, spropositata e mai vista al cospetto di nessun altro politico italiano, pari a un vero e proprio piccolo esercito personale. Pagato con i soldi di tutti noi cittadini. Soldi buttati se pensiamo che agli eventi ove va Salvini non sono accaduti mai scontri o tensioni degne di nota. Ieri, quando Salvini si è recato sul Belvedere di Giulianova per un comizio elettorale, il “vertice della tensione” era rappresentato niente di meno che da una flebile contestazione a mezzo di scritte sui muri, gesto effettivamente scorretto poichè è da incivili imbrattare così una città, ma tali scritte sono state prontamente ripulite dagli operai comunali in tempi da record, prima che Salvini arrivasse per il comizio. Peccato che la stessa efficienza non sia stata profusa per la pulizia di ben altre scritte, che imbrattano Giulianova oramai da ANNI e che non sono state MAI rimosse. Inoltre, c’è da aggiungere che esattamente una settimana prima del comizio di Salvini, a Giulianova era venuta anche l’on. Meloni − politica dal programma molto simile a quello del segretario del Carroccio − la quale era stata “scortata” da un’unica pattuglia dei carabinieri, a cui se ne erano aggiunte due della guardia costiera in quanto era venuta in visita del porto. Nonostante questo dispiegamento minimo di forze dell’ordine, anche qui nessuna tensione o scontro si è materializzato. Dunque è totalmente errato e demagogico affermare che un dispiegamento di forze dell’ordine, soprattutto se particolarmente vasto, può scoraggiare l’affermarsi di tensioni e scontri. Oltretutto Salvini, che stava tenendo il comizio su un palco sul Belvedere di Giulianova (posto dunque visibilissimo e altamente esposto), poteva anche essere un facile bersaglio da parte di eventuali cecchini celati dietro la finestra delle centinaia di case con vista sul Belvedere, e a questa remotissima evenienza nessun agente avrebbe potuto far fronte. Dunque questo eccessivo dispiegamento di agenti, interpretabile come al solito in maniera demagogica in termini di attività di sicurezza nei confronti di un ministro e dei cittadini presenti, si è rivelato del tutto inutile: il solito spreco all’italiana. Per quanto riguarda, poi, i contenuti del comizio di Salvini − peraltro durato pochissimo − questi non andavano oltre le solite affermazioni trite e ritrite (che ovviamente mi astengo dal tediarvi di riportare), intervallate da frasi fatte del tipo “in Abruzzo mi trovo molto bene, è tutto bello, si mangia anche bene”, insomma proprio gli stessi discorsi che farebbe qualsiasi uomo di spettacolo in una esibizione al cospetto dei suoi fan. Ma la captatio benevolentiae più sfacciata è stata data dalla sua scelta in tema di abbigliamento: Salvini ha infatti svolto il suo comizio con addosso la maglia del Giulianova Calcio, una maglia che per un tifoso vuol dire molto e pertanto troverebbe offensivo il vederla strumentalizzata addirittura a fini politici. Ora, potremmo pure chiudere un occhio su questo aspetto, chiuderne un altro sul fatto che un ministro e vicepremier faccia un comizio vestito alla stregua di un cabarettista di Zelig o Colorado, ma sulla presa in giro di fondo non possiamo chiudere nessun occhio, poichè un milanese doc il quale con Giulianova non ha mai avuto a che fare non può darla a bere a un’intera città fingendosene “amico” e recitando la parte di chi se ne è innamorato a tal punto da indossare anche la maglia della locale squadra di calcio. Oltretutto è noto a tutti che Salvini è un accanito ultras del Milan e molto probabilmente del Giulianova Calcio è venuto a conoscenza solamente ieri, in vista del comizio. Infine una curiosità: oggi il Real Giulianova ha subìto una cocente sconfitta per 4 a 1 contro il Matelica. Non è che il Salvini in stile ultras giuliese gli abbia portato un po’ di sfiga?

A questo punto potrei anche continuare citando altre decine di esempi di politica infarcita di demagogia, ma penso che questi enumerati fino ad ora bastano ed avanzano. Ovviamente qualunque elettore è libero di votare per qualsiasi candidato e partito, a patto però di sapere che quando la politica si infarcisce di demagogia, non si può più parlare di politica, ma di inganno, di truffa. Ai danni di noi elettori, di noi cittadini e di noi individui.

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWS.

Tutte le ragioni − e i rischi − dell’(ab)uso della tecnologia

Dai tempi della rivoluzione industriale si specula sull’ipotesi che la macchina possa eguagliare le capacità umane, se non superarle. Un dibattito, oggi, ancor più accentuato da tutte quelle innovazioni tecnologiche nate nel nuovo millennio e che hanno fornito all’uomo e alla società una tecnologia sempre più avanzata e vicina − nelle forme nelle finalità − alla natura della mente umana. O almeno questo è quanto vogliono farci credere. I tanti device tecnologici e informatici sempre più a misura d’uomo, sempre più umanizzati e fruibili da parte di qualsiasi utenza rispondono infatti alla pressante finalità di marketing di voler presentare la tecnologia come così avanzata dal’avere un’indole umana, talmente umana al punto da apparire così simile al nostro modo di essere e di pensare (per appagare la necessità di percepirla familiare e dunque sicura) e deputata a svolgere le nostre stesse attività (per appagare la necessità di percepirla estremamente utile, dunque irrinunciabile). Insomma, tutto quel che serve per poter indurre i consumatori a fare un uso sempre più largo della tecnologia, sempre più avanzato ed esagerato da causare dei mali esclusivi del nuovo millennio, come la diffusione dei virus informatici, degli IAD (internet addiction disorders), della pedopornografia e del cyberbullismo, della vendita di articoli illegali e pericolosi....Se di molti di questi pericoli ho già trattato sia online sia nei convegni da me tenuti, ora voglio mettervi a conoscenza di un rischio a cui si dà poca o nulla importanza: quello di delegare ogni nostro compito a una macchina (principalmente di tipo informatico, cioè un PC, uno smartphone o un tablet). Come visto sopra, oggi le multinazionali dell’informatica − al fine di incrementare i guadagni e mantenersi concorrenziali − immettono sul mercato prodotti che presentano via via più funzionalità e in grado di fare sempre più cose...a scapito della mente umana! Facendo un esempio semplicissimo come i calcoli aritmetici, se si prende la brutta abitudine di effettuare qualsiasi calcolo − anche il più banale − tramite la calcolatrice, mano a mano sarà sempre più difficoltoso fare dei calcoli a mente; un altro esempio è costituito dai contatti telefonici: se si fa troppo affidamento sulla rubrica del proprio telefono − rinunziando a tenere a mente anche i numeri più importanti − si finirà per scordarli e, qualora il cellulare dovesse non funzionare (ad esempio perchè rotto, smarrito, rubato o − evenienza comunissima oggigiorno − scarico), si finirà con il non essere più in grado di chiamare alcun numero, nemmeno in caso di emergenza. Il fenomeno esemplificato poc’anzi è spiegabile a livello di plasticità cerebrale: le connessioni sinaptiche che non vengono sollecitate per molto tempo finiranno per sciogliersi e dunque sarà molto difficoltoso − se non impossibile − (ri)fare certe cose che non si fanno da molto tempo, e che pertanto andrebbero obbligatoriamente riapprese. Ma all’evenienza che la tecnologia ci “lasci nei guai” non si pensa quasi mai: non è infatti interesse delle multinazionali dell’informatica, nè delle imponenti campagne pubblicitarie da queste poste in atto, descrivere (anche) i limiti dei loro prodotti. Tutto ciò porta inevitabilmente a un effetto paradosso: spesso, quanto più la tecnologia è avanzata, tanto più è invalidante. Facciamo l’esempio degli antivirus, i cui produttori sono alle prese con un mercato saturo e ipercompetitivo: la gran parte degli stessi è descritta con toni enfatici, epici e altisonanti, come “la miglior suite antivirus di sempre”, con cui poter “navigare sul web nella più totale tranquillità”. Il messaggio è chiaro: fate quello che vi pare su internet − anche le cose più pericolose e senza cervello − perchè tanto ci pensa il super antivirus X Y a tutelarvi da ogni sorta di virus, trojan, backdoor, spyware, adware e chi più ne ha più ne metta. In tal modo si invita indirettamente l’utente a delegare la propria sicurezza informatica a un software (cioè alla “macchina”), andando paradossalmente ad aumentare il rischio potenziale di imbattersi in minacce informatiche: se infatti un utente fosse consapevole che qualunque antivirus, persino il migliore, non essendo perfetto potrebbe anche non rilevare alcuni malware, arriverebbe all’inevitabile (e corretta) conclusione che il primo antivirus è la propria mente. Dunque, pensare di non aprire allegati da mail sospette, evitare di visitare siti potenzialmente pericolosi, tenere costantemente aggiornato il proprio device.... Ora non sto asserendo che l’antivirus non serva, ma prima di tutto viene la mente, quella umana, per il semplice fatto che le macchine non ne sono in possesso e non ne saranno mai. É impensabile asserire che le macchine possano in futuro arrivare ad eguagliare o addirittura superare le performance umane, e ciò è confermato dal fatto che l’uomo − non essendo Dio − non è mai riuscito a creare una copia di se stesso sotto forma di macchina, nemmeno con l’ausilio delle notevoli innovazioni della scienza e della tecnica che sono disponibili al giorno d’oggi. Chi sostiene il contrario (cioè principalmente le già citate multinazionali) è pienamente consapevole di mentire, ma lo fa per meri fini di marketing, con l’obiettivo di esaltare ed osannare le caratteristiche e funzionalità dell’ultimo prodotto posto sul mercato. E chi sono i consumatori più colpiti da tale propaganda mediatica? Chi è nato con questo tipo di tecnologia, da cui ora è assuefatto: i millennials. Al giorno d’oggi ci sono fin troppi giovani i quali hanno instaurato un rapporto malsano con la tecnologia: non uno di utilità, ma di dipendenza, di schiavitù. E, come al solito, la scuola è in gran parte estranea a questo malessere in cui oggi versano i giovani, notandone le conseguenze più che altro sul solo piano didattico. Ma se un alunno non riesce, ad esempio, a scrivere correttamente un tema (poichè il linguaggio a cui è abituato − cioè quello delle chat − è molto diverso da quello di un elaborato scolastico), l’insegnante non dovrebbe limitarsi a dare un cattivo voto, ma dovrebbe tenere delle lezioni sul corretto e sano uso della tecnologia, mettendo in risalto non solo le opportunità che la stessa offre (di cui i giovani sono tipicamente consapevoli), ma anche e soprattutto i limiti e i risvolti negativi su cui porre attenzione, dato che ne sono pur sempre parte integrante. E sono anche in continuo aumento. É notizia di un paio di mesi fa la frode informatica di dati personali (principalmente indirizzi email e password) più grande della storia di internet, con circa 22 milioni di vittime in tutto il mondo, a cui ha fatto subito seguito l’appello di numerose ditte informatiche di utilizzare i loro programmi per creare un archivio sicuro in cui custodire le password personali e/o permettere di crearne altre più sicure con l’ausilio del software stesso. Una domanda sorge però spontanea: se gli hacker sono riusciti a carpire password persino da giganti del web come Facebook o LinkedIn, non saranno anche in grado di fare lo stesso con questi “archivi protetti”? Forse è meglio far affidamento sulla nostra memoria: è molto meno pubblicizzata e fuori moda, ma in compenso tanto più sicura ed affidabile.

ARTICOLO ESTRATTO DA ALL NEWS ABRUZZO, WALL NEWS 24, EKUOIN DIALOGOINFORMAZIONE.IT, CENTRALMENTER+ NEWSVOX PUBLICA, TM NOTIZIE, ANANKE NEWS, IL FARO 24, CITY RUMORS E RADIO AZZURRA.

Il Rotary a Roseto per la Settimana del Cervello

La Settimana del Cervello (Brain Awareness Week) è un’iniziativa a livello nazionale tesa a promuovere l’informazione relativa alla psicologia, alla medicina e alle neuroscienze, coinvolgendo attivamente le istituzioni e rendendo partecipe la cittadinanza delle relative conoscenze scientifiche a riguardo. Sette giorni, dunque, naturalmente ricchi di appuntamenti culturali come convegni, mostre, corsi, spettacoli...tutti nel segno della scienza. “E a chi, più del Rotary International, può stare a cuore la divulgazione scientifica?” si chiede il prof. Antonio Lera, docente dell’Università degli studi dell’Aquila e neurologo dirigente medico dell’ASL, nonchè presidente del Rotary Club Teramo Est e dell’associazione culturale ἀγάπη - Caffè letterari d’Italia e d’Europa, “Il Rotary” − prosegue Lera − “ha da sempre dato largo spazio alla scienza nelle sue numerose iniziative, prediligendo pur tuttavia un linguaggio il più possibile semplice e diretto, al fine di essere compreso da qualsiasi pubblico. E in occasione della Settimana del Cervello potevamo forse fare eccezione?! Certo che no! Questa settimana abbiamo già organizzato il convegno sulla diagnosi precoce del deterioramento cognitivo, la neurobiologia dell’invecchiamento cerebrale e lo screening per l’invecchiamento mentale al Palazzo del Mare di Roseto degli Abruzzi, a cui è seguito − a Teramo − lo screening gratuito per la memoria e i deficit cognitivi”. “Ma non è finita qui” − esordisce il dott. Eugenio Flajani Galli, psicologo, psicosessuologo e scrittore giuliese − “la Settimana del Cervello per il Rotary, poichè domenica abbiamo in programma di chiudere questa densa sette giorni di appuntamenti socio-culturali con un convegno su mente, cervello e neuroplasticità cerebrale, in cui io e il prof. Lera tratteremo − supportati da altri nostri amici e colleghi − in maniera esaustiva di temi quali la prevenzione dell’invecchiamento, la resilienza e l’assertività, il rilassamento psicosomatico, il rapporto mente-macchina, la prevenzione dell’invecchiamento e la stimolazione cognitiva...tutti temi di attualità e grande rilevanza nella società odierna, che pertanto non possono assolutamente mancare nella Settimana del Cervello, a cui abbiamo dedicato così tanti eventi e un grande entusiasmo”. E oltre alle neuroscienze, alla psicologia e alle scienze cognitive, il convegno darà spazio anche alla sana alimentazione e al come prevenire i processi ossidativi in atto nelle cellule del nostro organismo: questo sarà il tema trattato dalla dott.ssa Simona Ruggieri, che servirà da monito per ricordarci il detto mens sana in corpore sano, e dunque della necessità di trattare (anche) la sfera della salute in aggiunta a quella della mente da parte degli altri relatori sopracitati. Ma non finisce qui: il grande evento, fissato per domenica nella suggestiva cornice del Palazzo del Mare di Roseto degli Abruzzi a partire dalle ore 10.30 AM, non vedrà protagonista la sola scienza, ma anche la letteratura e, in particolar modo, la poesia. Sarà infatti ospite speciale del Rotary International il pluripremiato scrittore e critico letterario campano naturalizzato abruzzese Mario De Bonis, già insignito del prestigioso premio “Gianni Di Venanzo”, uno tra i più grandi studiosi in Italia di Eduardo De Filippo (che ha conosciuto personalmente e sul quale ha anche scritto il libro “Eduardo visto da vicino”), che reciterà le sue poesie dando vita a illuminanti intervalli poetici. Infine, verranno esposte nel Palazzo del Mare le opere artistiche in tela e in pietra delle pittrici e scultrici Carmen Bernal e Sandra Di Marcantonio. Quest’ultima, in particolare, è anche scrittrice e ha partorito opere surrealistiche − ispirate a Salvador Dalì − da sempre molto ricercate sia in Italia sia all’estero, arrivando a essere presentate perfino dal noto critico d’arte Andrea Diprè.

L’ingresso al convegno è gratuito e sarà rilasciato un attestato di partecipazione a tutti i richiedenti.

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA AVANTI! ONLINE E ANANKE NEWS

Vinci Salvini: il gioco che riduce la politica a barzelletta

Che oggi il modo di fare politica sia cambiato è cosa nota, ma che un ministro dell’Interno e vice premier lanci uno sgangherato concorso a premi sui social ha dell’incredibile. Mi riferisco al gioco tutto 2.0 “Vinci Salvini”, che oramai da una settimana permette di poter vincere la propria foto pubblicata sui social del ministro dell’Interno, oltre a una telefonata con quest’ultimo o − come super premio − addirittura un incontro di persona con il “capitano” per prendere un caffè insieme (sperando che almeno quello sia offerto da lui). Partecipare è facilissimo: vince chi mette più mi piace e/o interazioni e/o commenti ai post di Matteo nel minor tempo possibile. Insomma, trattasi di un giochino così puerile che anche un bambino della scuola elementare potrebbe svolgere. Sempre che lo accetti, però, dato che la stragrande maggioranza dei giochi fruibili da parte dei bambini delle elementari è, giustamente, molto più articolata del “Vinci Salvini”. Potremmo pertanto sostenere che tale gioco è più che altro idoneo per un target di primati non umani, aventi però il pollice opponibile utilizzabile al fine di scorrere il più velocemente possibile lo schermo e premere mi piace sui post del capitano. Il Vinci Salvini è altresì un gioco che ho voluto attendere a recensire, al fine di comprenderne la riuscita. Una riuscita, però, molto modesta sia in termini quantitativi − se pensiamo che gli iscritti sono fino ad oggi solo poche migliaia a fronte dei 6 milioni di follower complessivi di Matteo facendo la somma di tutti i suoi canali social (magari poichè gran parte di loro sono inattivi o fake?) − sia in termini qualitativi, se teniamo conto del fatto che tale operazione a premi ha sollevato più critiche che apprezzamenti. E come potrebbe essere il contrario? Innanzitutto suona come presa in giro che un’operazione a premi permetta di vincere una telefonata o, al massimo, l’incontro con un ministro: a parte che non è specificato quanto tempo debbano durare telefonata ed incontro (e quindi tali interazioni con il vice premier potrebbero benissimo ridursi a un semplice “ciao, sono Matteo, come va? Che mi racconti? Bene, bene, mi ha fatto molto piacere conoscerti...bacioni, saluti....”), è cosa nota che Salvini, in quasi tutti i suoi interventi e comizi, ripeta sempre le stesse cose − trite, ritrite, scontate, ma molto facili da comprendere − e allo stesso tempo si guarda molto bene dall’affrontare tematiche scomode, come il rispondere a tutti quei meridionali che gli domandano come mai ora non sono più dei “terroni di merda” oppure il fornire una risposta a chi gli chiede dove sono finiti i quasi 50 milioni di soldi pubblici di cui la Lega Nord ha usufruito illegalmente. Quindi non aspettiamoci di divenire partecipi di chissà quale rivelazione “illuminante” al termine di un caffè o di una telefonata con Salvini. Ma, tra l’altro, è concepibile che un concorso indetto da una delle massime cariche del governo si limiti al voler produrre semplici click e stringati commenti sui social? Magari sarebbe auspicabile che un ministro dia il via a un concorso più utile per la società, come un premio per una tesi di laurea o di dottorato particolarmente meritevole, o ancora per un libro che ha toccato delle tematiche sociali interessanti....nulla di tutto ciò. Il Vinci Salvini, in parole povere, è niente di più di un gioco in cui l’unico vincitore è Salvini stesso. I concorrenti giocano, s’illudono di vincere, ma chi vince è sempre lui: infatti tutte queste interazioni social permettono di aumentare l’engagement dei profili social, in altre parole accrescere la reputazione online di Salvini mediante tutti quei like, commenti, cuoricini, eccetera messi appositamente per vincere il concorso. Ricorda molto da vicino tutti quei siti − rintracciabili con delle semplici ricerche su Google come “aumentare follower Instagram”, “avere più mi piace sulla pagina Facebook”, “accrescere follower su twitter”, eccetera − che permettono il cosiddetto “pay per click”: si tratta di società che, a fronte del pagamento di una cifra variabile a seconda del numero di nuovi follower su Instagram, nuovi mi piace su Facebook, nuovi iscritti al proprio canale YouTube...che vogliamo, permette di accrescere il numero di “consensi online” dei nostri canali social. Il meccanismo è molto semplice e può essere sfruttato anche in politica: se un candidato vuole dimostrare che le cose che dice sono ben accette dalla maggior parte degli elettori, potrebbe essere intenzionato ad aumentare, ad esempio, il numero dei suoi fan sulla sua pagina Facebook (il meccanismo mentale alla base è: “se io, elettore, vedo che un politico è seguito da più persone, magari penso che sia più importante, più bravo, più competente, con più possibilità di riuscita alle elezioni...quindi lo voto”), dunque con una semplice ricerca su Google trova un sito che permette di accrescere il numero dei fan della propria pagina. Come? Il sito in questione, praticamente, fa da intermediario: fa pagare una cifra, come spiegato sopra, a chi intende aumentare il numero dei likes e poi corrisponde parte di quell’importo (generalmente pochi centesimi per ogni click) agli utenti che effettivamente cliccano “mi piace” sulla pagina in questione. La differenza tra le entrate − da parte di chi vuole aumentare il numero di fan alla propria pagina Facebook − e le uscite − destinate a chi ci clicca “mi piace” − costituiscono il guadagno della società che gestisce il sito. La Lega ha però trovato il modo di scavalcare tale investimento di acquisto di fan, followers, mi piace e così via, semplicemente creando questo Vinci Salvini: infatti l’esborso che il partito va a pagare in tal modo è pari a zero. Ah dimenticavo, forse pari a pochi spiccioli se calcoliamo che probabilmente il “capitano” offra il caffè a quei pochi eletti della sua “ciurma” che avranno il privilegio (?) di incontrarlo.

E non è finita qui, poichè il Vinci Salvini costituisce una reale minaccia per la privacy, poichè − essendo un’operazione a premi − necessita di registrazione per poter partecipare, prevedendo dunque la raccolta dei dati personali e sensibili di tutti gli iscritti, al fine di schedarli e profilarli. Ma oltre a ciò, questo opinabile gioco costituisce anche un vero e proprio pericolo per la salute mentale in quanto, al fine di avere maggiori probabilità di vincere Salvini, è necessario passare più tempo possibile sui social, andando ad alimentare la possibilità di soffrire di IAD − ovvero di sindrome da dipendenza da internet, di cui ho ampiamente trattato − e a sottrarre del tempo da impiegare per attività più utili, come l’informarsi sui programmi e i candidati dei vari partiti che si presentano il 26 di questo mese, anzichè cliccare “mi piace” il più velocemente possibile a tutti i post che scrive uno solo di essi, senza nemmeno leggerli (altrimenti come si farebbe a cliccarci in modo più celere degli altri concorrenti?). In ultimo, non si può tralasciare il danno di immagine che un “gioco” di questo genere arreca all’immagine dell’Italia intera, che all’estero rischia sempre più di essere vista come una grande repubblica delle banane, con un ministro e vice premier che si preoccupa più di farsi bello sui social che di fornire soluzioni e risposte ai cittadini. Risposte che sicuramente non verranno fornite nemmeno con il PREMIO − se così dobbiamo definire il DIRITTO di ogni cittadino di essere sentito da un rappresentante del popolo − di interloquire con un ministro al telefono o in un qualche bar. Sì, perchè come accennato in precedenza, Salvini non dialoga con nessuno durante i suoi incontri con l’elettorato. I suoi discorsi sono monounivoci: o si è in accordo con lui su tutto oppure si deve tacere. Ne è l’ennesimo esempio il suo ritorno in Abruzzo, a Montesilvano e a Giulianova, ove già aveva fatto il suo show a inizio anno tenendo il comizio con la maglia del Giulianova Calcio. Accompagnato come al solito da un dispiegamento di forze dell’ordine − pagate coi soldi pubblici − talmente imponente da fare addirittura paura ai residenti di una città di 24000 abitanti come Giulianova, in cui non si era mai visto un simile “esercito” prima d’ora, nemmeno durante la visita del premier Conte durante la Vigilia di Natale (il quale, seppur superiore come grado a Salvini, disponeva però di una scorta pari a nemmeno un decimo di quella che accompagnava quest’ultimo), ha quindi tenuto il suo solito monologo fatto di frasi fatte e battute paesane, senza però spingersi minimamente ad azzardare un dialogo con il pubblico lì presente. E guai a criticarlo: si viene prontamente allontanati (o fermati) dalla Digos, e se si è sfortunati vengono anche sequestrati i propri effetti personali. Ecco che bella persona vincono i vincitori di Vinci Salvini. E, a mio parere, questo gioco di parole è anche più intelligente del giocare a Vinci Salvini.

 

NOTA BENE: sono venuto a sapere di quanto accaduto a Giulianova in occasione del ritorno di Salvini non di persona ma tramite fonti terze (stampa, passaparola, social...), poichè in uno scempio di evento simile ho avuto la fortuna di non trovarmi nemmeno per sbaglio, in quanto ero in vacanza a Palma di Maiorca. Ma sfortunatamente in compagnia anche del mio smartphone con Google News preinstallato, che a un certo punto ha pensato bene di spiattellarmi sulla home la notizia del Vinci Salvini. Dopo averla letta ho riflettuto seriamente sull’ipotesi di rimanere a Maiorca come expat....

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWS.

Sono la fiamma che vi riscalda il cuore. Il mio nome è Attrazione

Massimo e Chiara si incrociavano ogni mattina verso le 7, al binario 3, in attesa che passasse quel regionale che li portasse ai rispettivi posti di lavoro. Ancora non c’era Tinder, e loro due si conobbero senza guardare lo schermo retroilluminato di uno smartphone, ma guardandosi negli occhi, quegli occhi con le pupille dilatate che lui puntava su di lei, mentre era frettolosamente intenta a truccarsi, lì, su quella panchina che occupava ogni mattina, proprio dinanzi a quella su cui egli si sedeva e cercava di occupare con l’unico fine di ammirarla per qualche flebile minuto, mentre lei era ancora impegnata a stendere il rimmel sulle ciglia, a posare il rossetto sulle labbra e a ordinare i mille pensieri nella testa. E c’era anche Massimo tra i suoi pensieri. Benchè questi non aveva la più vaga idea che Chiara avesse capito il suo interesse per lei, questo suo dubbio aveva trovato una risposta nel suo sguardo fresco di rimmel: anch’ella posava gli occhi su di lui, per poi repentinamente spostarli altrove nel momento in cui egli li incrociava con i suoi.

Un gioco di sguardi che lasciò spazio alla parola allorchè quell’uomo così misterioso e galante le raccolse prontamente tutte le carte che lei aveva lasciato cadere a terra, a poca distanza da lui. Con l’unico scopo di capire la sua reazione. Con l’unico desiderio di scoprire se quell’uomo fosse veramente attratto da lei o meno. ‹‹Oh, molte grazie! Non dove...›› ‹‹Ma si figuri!›› la interruppe lui ‹‹caschiamo per terra dal sonno noi a quest’ora...forse anche le carte non si tengono in piedi dal sonno!››. Carte a cui Massimo aveva comunque dato un’occhiata, nell’atto di raccoglierle, per capire di cosa si occupasse Chiara: ‹‹Ma quindi lei è un’agente immobiliare? Ho visto che ci sono delle carte riguardanti immobili...›› ‹‹No, sono segretaria in uno studio notarile››. Poteva anche limitarsi a un secco “no” Chiara, la quale aveva però continuato con lo svelare il suo lavoro a Massimo, proprio perchè quell’uomo esercitava un certo fascino in lei. Lo stesso fascino dell’ignoto, del mistero, che egli provava nei suoi confronti e che già era stato appagato per il fatto di essere venuto a conoscenza del lavoro ch’ella faceva. Sì, perchè è proprio la nostra atavica, odisseica sete di “virtute e canoscenza” di dantesca memoria uno degli elementi più rilevanti tra quelli che contribuiscono a farci considerare un potenziale partner come attraente o meno. Ciò che è ignoto e misterioso rappresenta una sfida a noi stessi. Socrate già ci insegnava che noi uomini “sappiamo di non sapere”, e questa non è l’esaltazione dell’ignoranza, bensì un mero prenderne atto. Anche in quanto è proprio dall’ignoranza che nasce la conoscenza, ed ecco perchè tutto ciò che a noi è sconosciuto e misterioso è allo stesso tempo attraente, poichè simboleggia ciò che di nuovo c’è per la nostra mente. Come per dei coloni una prateria incontaminata che ricorda l’Eden, come per degli esploratori una terra che non ha mai visto l’impronta dell’uomo e che non è segnata su nessuna carta geografica, come per i romani una futura provincia da assoggettare al loro impero. Di questo ne parlava anche Calgaco, capo dei caledoni, in un discorso riportato dallo storico Tacito: i romani − non a torto definiti “ladri del mondo” − sono descritti come dei predoni che cercano di conquistare l’intero universo, avventurandosi persino in terre assai remote e misteriose pur di farlo. E che magari vi si recano proprio a causa del fascino che il mistero esercita su di loro: chissà quali inestimabili ricchezze celano queste terre così lontane e avvolte da quest’aura di mistero? Allo stesso modo, quali segrete virtù può celare quest’uomo o questa donna di cui so poco o nulla? Questa è la base su cui poggia l’attrazione, questa è la scintilla che dà vita all’innamoramento, al desiderio di conoscere l’altro e, perchè no, anche di costruirci insieme qualcosa di serio. Massimo e Chiara l’hanno costruito: ora sono sposati e hanno due bambini piccoli. Quando li conobbi − a causa della loro richiesta di aiuto per uscire da una relazione divenuta “piatta e monotona” − gli feci una delle primissime domande che faccio a qualsiasi coppia: “come vi siete conosciuti e cosa avete trovato di interessante l’uno nell’altro?”. Loro mi risposero raccontandomi, appunto, di come si erano conosciuti, con quel fugace gioco di sguardi, con quei sorrisi flebili ma allo stesso tempo impertinenti, perchè le emozioni che questi gesti corporei palesavano andavano inesorabilmente a scontrarsi con la ferrea e sorda etichetta sociale che non prevede che vi siano emozioni − e soprattutto di tipo romantico − in un ambiente freddo e spoglio come una stazione, in una carrozza gelida e fatiscente come quella di un treno regionale...la stessa carrozza che però ha permesso, piano piano, alle loro vite di incrociarsi. Come quando Chiara ha detto a Massimo che la Wind le avrebbe regalato degli MMS da utilizzare sul suo numero, ma che lei non aveva avuto modo di utilizzarli in quanto il cellulare era nuovo − “disponeva addirittura di fotocamera” − e quindi, dato che non sapeva come utilizzarlo, chiedeva a Massimo di insegnarglielo (benchè in realtà la storia dei regalini della Wind era l’ennesima scusa per attaccare discorso) e via dicendo. Il mistero ha alimentato il loro rapporto giorno dopo giorno, e giorno dopo giorno ognuno provava qualcosa in più per l’altro. Oramai però stavano insieme da più di 10 anni, e ognuno sapeva tutto dell’altro, ma proprio tutto. La loro vita era composta da rigide routine quotidiane, bambini piccoli da accudire, mutui da pagare, faccende varie, stress e insoddisfazioni di ogni genere e sorte. Avevano semplicemente smesso di sedursi a vicenda, avevano smesso di provare emozioni, di uscire da quel circolo vizioso che ci proietta in un circuito chiuso su cui trottare come se fossimo tutti dei semplici cricetini in gabbia. Ma avevano comprato anche una bella casa, con dentro pure un camino. Gli chiesi pertanto: ‹‹Lo accendete mai questo camino?›› ‹‹Sì, molto poco, ma lo accendiamo...tipicamente sotto Natale perchè piace ai bambini››. ‹‹Bene›› gli risposi ‹‹allora avrete anche quell’attrezzo che serve per soffiare sul fuoco...ce l’ho anche io a casa ma non ricordo il nome...›› ‹‹ah sì, ho capito ma non viene nemmeno a me›› mi fece lui. ‹‹Cerchiamolo su Google!›› mi fece Chiara, la quale aveva oramai dismesso il suo telefonino che “disponeva addirittura di fotocamera” per un nuovo smartphone di proporzioni gigantesche; ‹‹Mantice, così si chiama›› mi disse lei dopo aver consultato Google. ‹‹Bene›› gli feci io ‹‹allora voi sapete che per tenere viva la fiamma che arde nel vostro camino dovete soffiarci sopra con il mantice, no? Però non ci si deve nemmeno soffiare troppo o con troppa intensità, altrimenti la fiamma rischia di spegnersi. Ora, facciamo conto che la fiamma sia l’amore. Il vostro Amore. Quello che vi ha permesso di conoscervi persino in uno schifo di stazione, con i vostri gesti corporei che sfidavano le norme sociali, sfidavano il giudizio altrui...quello sguardo con cui tu, Chiara, guardavi proprio l’uomo di cui ti saresti innamorata, che sarebbe divenuto tuo marito e padre dei tuoi figli. Quello sguardo che tu però distoglievi, perchè per la società non è cosa che si addice a una donna fissare un uomo. E da quella sinfonia di sguardi sono poi nati dei pensieri e quindi altri gesti e in ultimo delle parole; e così di nuovo altri pensieri, altri gesti e altre parole...fino a farvi innamorare e decidere di passare il resto della vostra vita insieme. Non lasciate, pertanto, che questa fiamma muoia (e con essa tutto il bene che vi può portare) ma tenetela viva il più che potete, affinchè riesca ad ardere e riscaldare i vostri cuori››. Dopo aver spiegato loro, anche a livello più pratico, termini e modalità per poter riaccendere la fiamma dell’attrazione che in loro si era oramai spenta, essi mi dissero − l’ultima volta che ci vedemmo − che è stato un po’ come prendere una macchina del tempo, come ricominciare ad utilizzare qualcosa che non si è più utilizzato da anni ed anni...ad esempio il telefonino che “disponeva addirittura di fotocamera”. Riscoprendo il valore terapeutico dell’attrazione, Massimo e Chiara hanno saputo (ri)scoprire anche un’altra cosa, molto importante: che il volersi bene, e il continuare a sedurre il proprio partner giorno dopo giorno sono dei valori imprescindibili per una sana e corretta vita familiare. E in questo loro percorso hanno imparato molto, anche cose brutte, come il fatto che il nemico principale dell’attrazione sentimentale è proprio il tran tran della vita quotidiana, che ci obbliga a uno stile di vita che lascia poco spazio ai sentimenti, alle novità e...alla felicità. Spesso, purtroppo, l’unica occasione per evadere è giusto quella sparuta settimana di ferie...o ancora il mondo dei sogni, in cui è possibile rintanarsi almeno per qualche ora al giorno, per sfuggire a una realtà che pare più un incubo. Ma se la realtà quotidiana fa lavorare l’emisfero sinistro del cervello (quello più razionale), la passione ha bisogno del funzionamento di quello destro (quello più emotivo e creativo). Per il benessere della coppia, per non spegnere la favella dell’attrazione, per vivere una vita sentimentale soddisfacente, iniziamo proprio con il far funzionare (anche) questo emisfero. Lo so, è poco di moda al giorno d’oggi, ma dato che non siamo degli automi − a dispetto di come la società odierna ci vorrebbe − le emozioni servono ancora. E se servono per una buona causa, come creare e mantenere accesa l’attrazione in una coppia, allora non ci resta che accettarle per quello che sono e imparare a capirle. Perchè se sono sconosciute fanno paura, ma se si conoscono e si sa come utilizzarle possono fare la differenza tra una vita felice e una che non lo è.

ARTICOLO ESTRATTO DA IL CENTRO, INFORMAZIONE.IT, ANANKE NEWS, IN DIALOGO, VOX PUBLICALA NOTIZIA, TM NOTIZIE, GIULIANOVA NEWS, WALL NEWS 24, ABRUZZO POPOLARESALUTE PER ME, ALL NEWS ABRUZZO, EKUO NEWS, IL FARO 24 E RADIO AZZURRA.

Scienza e cultura nel seminario sulla robotica all’Università degli Studi dell’Aquila

Eguagliare l’uomo in tutti i suoi aspetti − cognitivi e tecnici in primis − è stato da sempre il fine ultimo della robotica, una scienza del futuro la cui conoscenza precisa e dettagliata rimane oggigiorno preclusa a larga parte del mondo accademico e non. Il dipartimento di medicina clinica, sanità pubblica, scienze della vita e dell’ambiente dell’Univeristà degli studi dell’Aquila, nella lungimiranza che ha da sempre contraddistinto la sua azione formativa, ha dunque deciso di organizzare per la giornata di sabato 22 giugno un seminario di caratura nazionale in collaborazione con l’associazione culturale Nuova παιδεία per illustrare al meglio tale scienza in un’ottica interdisciplinare, al fine di fornire una visione a 360° degli argomenti trattati. ‹‹Abbiamo lavorato mesi per organizzare questo notevole seminario›› osserva il prof. Gabriele Gaudieri, docente di pedagogia presso l’Università degli studi dell’Aquila, nonchè presidente di Nuova παιδεία ‹‹ed oggi siamo orgogliosi di aver potuto realizzare un evento che è stato così ben accolto da un largo pubblico di studenti e non, e che ha proiettato l’Università dell’Aquila e l’intero Abruzzo direttamente nel futuro››. Tra l’altro, è stato proprio il professor Gaudieri ad aprire il seminario di robotica, citando l’opera rivoluzionaria di Maria Montessori e parlando di un argomento indubbiamente originale quale la robotica educativa e le sue relative sperimentazioni in Italia; ha dunque preso la parola anche il dott. Massimo Mazzetti di Carsoli, disquisendo di robotica applicata ai soggetti diversamente abili, e poi il prof. Enzo Sechi − docente di neuropsichiatria presso l’Università degli studi dell’Aquila − che ha illustrato le applicazioni terapeutiche della robotica in ambito neurologico; il professore d’informatica Massimo D’Amario ha invece tenuto una lezione tecnica di programmazione robotica, mostrando in azione al pubblico presente in sala anche robot molto particolari e “ludici”, come quelli fabbricati dalla Lego, che pur tuttavia permettono ai bambini di divertirsi coi noti mattoncini colorati senza perdere però l’occasione di imparare le basi dell’informatica e dell’intelligenza artificiale (I.A.). Quest’ultimo argomento è stato magistralmente approfondito dal dott. Eugenio Flajani Galli − psicologo giuliese autore di numerosi testi scientifici − il quale ha da un lato trattato tutti i benefici che l’intelligenza artificiale e le nuove tecnologie informatiche possono apportare all’umanità, dall’altro ha però messo in guardia dall’uso non appropriato di tali nuovi strumenti e, dati alla mano, ha citato tutti i casi in cui le “macchine” (computer, smartphone, tablet...) sono malauguratamente utilizzate in maniera disfunzionale e dunque hanno dato vita a rilevanti problematiche sociali molto d’attualità al giorno d’oggi quali gli IAD (internet addiction disorders), la pedopornografia digitale, l’adescamento dei minori attraverso i videogiochi online, il cyberbullismo, l’information overload...e soprattutto, dopo aver passato in rassegna tali problematiche, ha anche fornito le indicazioni pratiche su come fare per porvi rimedio e riuscire dunque a tornare ad essere veramente padroni delle macchine e della propria vita. Digitale e non. La sessione pomeridiana del seminario è stata invece contraddistinta dagli interventi del prof. Antonio Lera − docente dell’Università degli studi dell’Aquila e neurologo dirigente medico dell’ASL, nonchè presidente del Rotary Club Teramo Est e dell’associazione culturale ἀγάπη - Caffè letterari d’Italia e d’Europa − e dell’economista e presidente S.E.I. Vincenzo Pietropaolo, i quali hanno rispettivamente trattato del confronto tra le attività proprie del robot e quelle dell’essere umano e di robotica applicata all’economia. In conclusione la dott.ssa Alessandra Norcini ha illustrato la relazione esistenziale intercorrente tra esseri umani e robot. Da segnalare, infine, la gradita sorpresa fatta dall’avv. Fabrizia Aquilio, assessore al turismo e alla promozione dell’immagine del Comune dell’Aquila, la quale ha portato i saluti di tutta la giunta comunale elogiando la "nobile opera educativa che l’Università degli studi dell’Aquila offre agli universitari del capoluogo abruzzese e − più in generale − alla cittadinanza tutta". Un’opera, oggigiorno, utile più che mai.

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWS.

Animazione da paura: lettura psicopedagogica dei classici Disney - parte 1

I Classici Disney non sono film d’animazione come altri. Sono opere cinematografiche che hanno incantato l’infanzia (e non solo) di generazioni e generazioni di bambini, oggi divenuti adulti. Se da un lato si pensa a questi film con una buona dose di melanconia nostalgica (molto probabilmente dovuta al fatto che tali cartoni sono un po’ la metafora dell’infanzia), dall’altro non si tralasciano però i tanti momenti disforici, ovvero negativi per lo stato d’animo, che i Classici Disney hanno causato. E non si tratta solo di episodi tristi − magari dovuti al fatto che il film stesso, in sostanza, è triste (ad esempio Red e Toby nemici-amici) − ma addirittura fortemente angoscianti e dunque potenzialmente nocivi per il piccolo spettatore. Di Classici Disney che provocano paura − almeno in determinate scene − ve ne sono veramente tanti, ma in questo articolo ho deciso di raccogliere la top-5 di quelli più angoscianti, almeno per bambini (più o meno) piccoli:

 

5) LA CARICA DEI 101 (1961)

 

In generale, per i film d’animazione della Walt Disney vale una regola: quanto più sono recenti, tanto meno sono spaventosi e disturbanti per un bambino. Vuoi per il fatto che si va incontro a una società che assegna via via più importanza ai bambini, vuoi per il fatto che mano a mano ci si allontana dagli orrori della guerra, i film d’animazione della Disney dei primi anni ’60 non sono angoscianti come quelli degli anni ’30 o ’40, ma ciò non toglie che possano comunque fare paura. Ne La carica dei 101, l’antagonista Crudelia De Mon viene pubblicizzata e brandizzata dalla stessa Walt Disney come “la peggior cattiva Disney”, il che è tutto un programma. Ovviamente con il susseguirsi degli anni la Disney affina sempre più le sue potenzialità di marketing, e decide pertanto di bollare in questo modo la nota fan delle pellicce naturali, contribuendo da un lato ad aumentare la curiosità di visionare il film, dall’altra però di creare nei giovani spettatori delle aspettative aventi per oggetto che “Crudelia è quella più cattiva di tutte, perchè se la prende addirittura con dei cuccioli, che vuole uccidere e spellare giusto per apparire più bella e alla moda”. Dall’ottica di un adulto, Crudelia De Mon potrebbe sembrare anche una signora un tantino stramba − magari con qualche tendenza psichiatrica − ma sicuramente più da compatire che da avversare, per il semplice fatto che se la deve vedere con oltre 100 cani in una volta (e meglio non immaginare il cattivo odore che possono emanare, nè il casino e i danni che potrebbero fare tutti insieme), oltre ai relativi padroni e alle forze dell’ordine alle calcagna. Per non parlare, poi, di tutti gli altri cani venuti in soccorso della già ben nutrita orda dei 101, i quali nel film sono raffigurati come organizzati a livello di corpo paramilitare e con competenze tattico-investigative superiori a quelle dell’Interpol. A tutto ciò si vanno ad aggiungere due scagnozzi decerebrati, al cui confronto Franco e Ciccio sarebbero da Premio Nobel. Ciononostante nel bambino che vede questa pellicola − specialmente se in possesso di qualche animale domestico − potrebbero crearsi copiosi timori di furti in casa, violenza, aggressione (la governante della famiglia di Pongo e Peggy viene aggredita da Gaspare e Orazio, che poi vanno a catturare i cuccioli), sequestro di persona (o di animale? Infatti in questo come in quasi tutti i Classici Disney il processo di umanizzazione degli animali porta a considerarli alla stregua di persone), oltre alla palese inefficacia delle forze dell’ordine, che nel film capiscono nettamente di meno dei cani. Meno male che la pellicola non è ambientata in Italia, altrimenti sarebbe apparsa come una palese barzelletta ai danni dell’Arma dei Carabinieri.

 

4) BAMBI (1943)

 

Come già accennato, i primi Classici di Walt Disney sono quelli più pericolosi per il benessere psichico dei bambini. E Bambi non si smentisce in questo. In tale film viene prima raffigurata la realtà bucolica e amena − quasi incantata − in cui vivono gli animali che abitano la foresta, con scene così mielose che suggerirebbero di primo acchito che la visione del cartone sia idonea anche (e soprattutto) a bambini decisamente molto piccoli, quasi in fasce. A un certo punto, però, l’eden in cui vive Bambi viene bruscamente interrotto dalla parentesi della caccia, che gli porta via ciò che di più importante aveva: sua mamma. Il proporre protagonisti orfani o personaggi che a un certo punto della trama perdono uno o più genitori sarà poi riciclato dalla Disney in molti altri cartoni (pensiamo ad esempio a Il Re Leone), ma ovviamente si tratta di una tematica molto al di sopra delle possibilità di un bambino, al quale non andrebbero mai e poi mai instillate preoccupazioni del tipo “ma se mamma muore? Cosa faccio se rimango da solo?”. Un film come Bambi obbliga dunque il bambino a confrontarsi con una tematica altamente angosciante e che, essendo appunto ben al di sopra delle sue possibilità esplicative e organizzative, generano nella sua mente dei sentimenti di debolezza e di incapacità. E chi l’avrebbe mai detto che un cerbiatto avrebbe potuto causare simili problemi?

 

3) PINOCCHIO (1940)

 

La storia del burattino più famoso al mondo, prima di essere stata riproposta come film dalla Walt Disney, è stata una allegra fiaba nata dalla penna di Carlo Collodi. Ciò però non giustifica assolutamente le diverse scene disturbanti scaturite dalla fantasia del celebre scrittore italiano: infatti, se sono solamente descritte e non raffigurate, le stesse non possono spaventare più di tanto (ne è la riprova che quando lessi Pinocchio, all’età di 8 anni, non ebbi nessuna esperienza negativa a riguardo). Il problema si presenta allorchè ciò che viene descritto sulla carta finisce sullo schermo, e così si ha il personaggio del perfido Mangiafuoco, il quale distruggendo i burattini che non gli servono più diviene la metafora di un pedofilo o di un serial killer, un personaggio in cui un bambino (benchè nelle vesti di burattino) quale è Pinocchio può imbattersi come se niente fosse e che dunque può far nascere nel piccolo spettatore il timore di essere sequestrato e maltrattato da uno sconosciuto. E non è solo Mangiafuoco a incutere terrore nel bambino in un film che fa della metamorfosi il suo topic. É proprio la trasformazione di Pinocchio a far intimorire il bambino: la fatina (che in realtà può essere considerata anche un personaggio estremamente negativo) che gli deturpa il volto, facendogli deformare il naso che si allunga a dismisura, così come il Paese dei Balocchi − in cui Pinocchio si trasforma in un asino − sono i ricordi più strazianti che può avere un bambino dalla visione di questo film. Dei ricordi ancor più spaventosi se pensiamo al fatto che il corpo del bambino è di sua natura in continuo mutamento, e su ciò non c’è nulla da dire poichè trattasi di un processo del tutto naturale e biologico, dato dal fatto che con il tempo si cresce e il corpo cambia. Ma il problema nasce dal fatto che nessuno di noi può conoscere il futuro, pertanto il bambino non può sapere come diventerà crescendo, non può conoscere la forma del corpo che avrà una volta cresciuto, ma ovviamente sa che il suo corpo è soggetto e destinato al mutamento. Questo processo di mutamento, reso incerto per il semplice fatto che il futuro stesso è ignoto e incerto, è già di per sè piuttosto disturbante per un bambino; se poi ci mettiamo anche la visione di un altro bambino (e Pinocchio, per come viene raffigurato, anche da burattino sembra a tutti gli effetti un bimbo come tutti gli altri) che muta il suo corpo...deformandosi, allora è ovvio che il giovane spettatore possa immaginare il cambiamento corporeo come estremamente negativo.

 

2) BIANCANEVE E I SETTE NANI (1937)

 

Sul gradino intermedio del podio troviamo il primo vero e proprio film d’animazione della storia del cinema, cosa che rende intuibile i molti paradossi presenti nella pellicola, primo tra tutti il fatto che i bambini-spettatori siano da un lato concepiti come così candidi e ingenui da accettare di buon grado che una donna conviva con sette uomini a lei ignoti, i quali a loro volta convivono allegramente tutti insieme nella stessa dimora, e perdipiù con Biancaneve instaurino esclusivamente dei rapporti di tipo amicale, quasi fosse una sorella per loro. Ma oltre che con i nani, Biancaneve ha dei rapporti − ovviamente sempre di natura amicale e fraterna, non altro, per carità − anche con la fauna che si aggira nei dintorni della loro casina, il che contribuisce pesantemente a creare un’atmosfera del tutto bucolica (che richiama per certi versi Heidi) che va a cozzare con il personaggio della strega cattiva (Grimilde). Ma più che “strega cattiva” sarebbe da ribattezzare “strega brutta e cattiva”, poichè i disegnatori l’hanno rappresentata così repellente che al confronto Crudelia De Mon potrebbe sembrare Miss America. E non è soltanto l’aspetto fisico della strega che può far spaventare non poco i bambini, ma anche e soprattutto il suo comportamento: in una scena, in particolare, la strega si sofferma su un suo prigioniero − oramai ridotto a scheletro − che si evince sia deceduto a causa della mancanza di acqua e viveri, tant’è che la strega, nello sfottere il malcapitato oramai ridotto a salma, gli butta nelle vicinanze una ciotola con un po’ d’acqua esclamando: “Volevi bere?! Ecco qui la tua acqua!”. Insomma, soprusi che non si sono visti nemmeno nei peggiori lager di Schindler’s List. Agli occhi di un bambino attuale la strega di Biancaneve potrebbe sembrare più che altro una militante dell’ISIS, ma per la Walt Disney degli anni ’30 non c’erano tanti problemi a mettere un bambino nelle condizioni di assistere a tali spettacoli orribili. Resta però la contraddizione che il film sia stato in certi punti realizzato come bucolico e (fin troppo) fiabesco, lasciando intendere che lo spettatore ideale sia un bambino candido e ingenuo, e in altri realizzato sulla stessa linea di una tragedia di Euripide − e avendo letto tutte le tragedie greche, scrivo “di Euripide”, poichè quelle di Eschilo e Sofocle in confronto sono spesso meno terrificanti di Biancaneve e i sette nani − e pertanto lasciando intendere che lo spettatore ideale sia un bimbo di ritorno, quantomeno, da qualche mese di soggiorno in un campo di concentramento.

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWS.

Animazione da paura: lettura psicopedagogica dei classici Disney - parte 2

Eccoci giunti al punto di conoscere quale sarà il Classico di Walt Disney che, per tematiche e contenuti, si aggiudicherà il primo posto del podio nella classifica dei Classici più spaventosi della storia. Abbiamo passato in rassegna, nella prima parte di questo articolo, noti Classici di Walt Disney che hanno terrorizzato generazioni di bambini di ogni parte del mondo: La carica dei 101, Biancaneve e i sette nani, Pinocchio e Bambi erano i titoli già esaminati precedentemente, ma nessuno si è rivelato così angosciante come quello che vedrete tra pochissimo. Ecco dunque a voi il Classico Disney più terrificante di tutti:

 

1) FANTASIA (1940)

 

Non ve l’aspettavate? Eppure Fantasia è un po’ l’emblema di ogni film d’animazione di Walt Disney, anzi, forse l’emblema dell’intero cinema d’animazione. Ma è allo stesso tempo un emblema di paura, di angoscia per tutti quei bambini (ed ex bambini) che l’hanno visto, almeno una volta nella vita. Quando uscì in sala correvano i tempi della guerra peggiore della storia dell’umanità, di conseguenza è plausibile aspettarsi una non eccessiva allegria dal cinematografo di quel dato momento storico, eppure l’intrinseca poliedricità di Fantasia − complice la sua struttura ad episodi − sta proprio nel regalare sia momenti allegri (ad esempio quelli visionabili durante La danza delle ore oppure durante La pastorale di Ludwig Van Beethoven ambientata sull’Olimpo) sia altri raccapriccianti.

Partiamo dall’episodio di Topolino apprendista stregone: la storia è nota a tutti, con il beniamino di Walt Disney che, trasgredendo alle regole imposte dallo stregone suo mentore, realizza un incantesimo in cui le scope allagano la stanza ove era presente anche Topolino, il quale rischia perfino di annegare, ma si salverà proprio grazie all’intervento provvidenziale dello stregone. Già di per sè una scenetta così angosciante non è per niente bella da vedere per un bambino, ma può essere anche peggiore da un punto di vista psico-pedagogico: il bimbo-spettatore può infatti apprendere da questo episodio che non è bene fare qualcosa da solo, mentre invece è il caso di affidarsi sempre e necessariamente alla figura dell’adulto, pena il mettersi seriamente in pericolo, rischiando perfino la vita. Ciò però va a cozzare duramente contro il dovuto processo di formazione di un senso di responsabilità e di autodeterminazione, cosa che avviene anche e soprattutto sperimentando autonomamente le tante novità che la vita pone dinanzi a un bambino, e non affidandosi sempre e comunque a un adulto a cui delegare ogni cosa da fare. In questo modo un bambino non crescerà mai, e la morale di tale episodio di Fantasia può essere proprio questa: non crescere mai, ma rimanere sempre bambini piccoli e far fare tutto quanto all’adulto di turno, pena il correre inevitabili e gravi rischi.

D’altra parte gli autori di Fantasia non erano nè psicologi nè pedagogisti, e di conseguenza potevano non aver capito le conseguenze psico-pedagogiche della morale di Topolino apprendista stregone, però potevano avere quantomeno il buon senso di non presentare scene indubbiamente di cattivo gusto per un bambino, ad esempio nell’episodio dedicato ai dinosauri: qui, in realtà, il presentare per la prima volta sul grande schermo questi strani animali poteva avere anche una funzione didattica. Effettivamente i dinosauri sono rappresentati bene per essere un film d’animazione destinato a famiglie, o almeno quanto basta per le conoscenze dell’epoca e per i livelli attenzionali di un bambino, ma certe scene sono esagerate: pensiamo al combattimento tra il tirannosauro e lo stegosauro, connotato da una parossistica violenza animalesca, molto cruda e accentuata, che più che eccitare un bambino lo spaventa (e ne è la riprova il soffermarsi dell’inquadratura sul primo piano del muso dello stegosauro oramai senza vita). Sorvoliamo anche su questa scena, magari era stata realizzata anche per poter illustrare al giovane spettatore che i dinosauri combattevano e cacciavano, e dunque che alcuni erano predatori e altri prede, pertanto tale siparietto potrebbe avere un suo perchè da un punto di vista prettamente didattico. Ma la scena successiva decisamente no. Tanto per concludere l’episodio dei dinosauri, la Walt Disney pensa bene di sbatterli via dallo schermo raccontandoci della loro estinzione: a questo punto si vede che la Terra diventa via via sempre più arida, e i dinosauri devono abbeverarsi in pozzanghere che si fanno ogniqualvolta più piccole, e a poco a poco cadono tutti a terra morenti, stremati dagli stenti e dalla sete, fino a diventare niente più che carcasse, e quindi scheletri e ossa sparse. Insomma, arrivano a diventare quello che per noi uomini sono oggi i dinosauri, come li possiamo ammirare nei musei o nei libri di testo. E così la Walt Disney ci regala l’ennesima scena apocalittica e straziante in un film di animazione...per giunta nemmeno didattica. Infatti, nonostante anche al giorno d’oggi non si sappia con chiarezza come si siano estinti i dinosauri, le tesi più accreditate vedono la loro estinzione come dovuta allo schianto di un meteorite sulla Terra, ma anche a cambiamenti climatici molto vasti, e probabilmente perfino a una serie di catastrofici terremoti ed eruzioni vulcaniche. Probabilmente la causa non è una, bensì si tratterebbe di concause susseguite nel corso dei secoli e/o dei millenni, ma la storia della mancanza d’acqua è quanto di più assurdo si possa raccontare. Oggigiorno, a causa dei frequenti sprechi, dell’aumento della popolazione e del surriscaldamento globale − tutti avvenimenti recentissime dal punto di vista storico − l’acqua potabile è sicuramente molta di meno rispetto al passato, e con elevata probabilità i dinosauri ne potevano avere assai di più a disposizione rispetto a noi! Certo, le conoscenze dell’epoca non potevano essere elevate come quelle odierne, però è estremamente errato da un punto di vista didattico esporre una storia puramente inventata come se fosse realmente accaduta, andando a saturare di conoscenze storico-naturalistiche errate il bagaglio culturale di un bambino.

Ma non è finita qui, perchè Fantasia ci riserva, sul finale, un’altra perla di vero e proprio disagio psichico per un bambino, molto probabilmente la più elevata in assoluto: si tratta di Una notte sul Monte Calvo. Da quello che si capisce dalla sparuta trama, su questo monte maledetto ogni notte il demone Chernobog (tra l’altro inquietante già dal nome, che sa tanto di Chernobyl) si diverte a evocare altri demoni, fantasmi e altre non meglio identificate creature raccapriccianti dell’oltretomba, tutte figurine che per un adulto possono o fare schifo o far ridere, ma a un bambino appaiono oltremodo terrificanti, forse anche a causa del fatto che saltellano, svolazzano e si muovono deformandosi e piegandosi su se stesse, mettendo su un vero e proprio teatrino dell’orrore. Come se non bastasse, tutto ciò è reso ancora più inquietante dal fatto che alle pendici di questo monte c’è anche una cittadina, dunque un bambino che abita nei pressi o alle pendici di qualche montagna o collina potrebbe pure immaginare che quello sia il ritrovo di qualche altra riunione di demoni, che allegramente fanno i loro party, i loro rave, e chissà poi quale altra cosa mostruosa. Ma il fatto più grave di questo episodio è, come quello dei dinosauri, proprio l’epilogo: una volta arrivata l’alba si odono infatti dei rintocchi di campana, che piano piano scacciano via le creature mostruose e fanno mettere a nanna il buon Chernobog il quale, essendo stato in piedi tutta la notte, avrà obiettivamente sonno e dunque decide − pur riluttante − di non proseguire per un after party (anche perchè si trova su un monte sfigato e non a Ibiza), bensì di fare la ninna come la campana gli suggerisce. Quindi, la campana, ovvero un mezzo di Dio, di per sè può essere paragonata al canto del gallo, cioè un modo per segnalare a Chernobog che si è fatta la mattina e quindi che è ora di dormire, dopo tutti gli schiamazzi fatti la notte prima. Al limite, se proprio si vuole optare sulla spiegazione che Dio scaccia via i demoni per via delle campane − che stanno a simboleggiare la religione − ci si dovrebbe interrogare sul perchè l’effetto sia così blando. Per un bambino non può essere rassicurante che contro un demonio Dio e la religione possono tutt’al più metterlo a fare la nanna per qualche ora: in tal modo il male, il diavolo, continua ad esistere e ad essere presente, sotto forma di tangibile minaccia che ogni notte può animarsi e fare ciò che vuole. Non è un caso se già al cinema Fantasia avesse spaventato tantissimi bambini, i quali avevano sofferto persino di incubi nel vedere questo film.

 

Ora, con questo articolo non voglio sostenere che tutti i film di animazione prodotti dalla Walt Disney siano nocivi o di cattivo gusto, d’altra parte hanno fatto compagnia a generazioni intere di bambini, prima ancora dell’avvento della Pixar e quindi di tutti quei film d’animazione computerizzata. Si trattava di altri tempi, in cui al bambino veniva dato molto meno spazio e molte meno attenzioni rispetto ad ora. Oltretutto c’erano molti più bambini, e la società non si poneva tanti problemi nei loro riguardi: anche se qualcuno avesse sviluppato qualche forma di psicopatologia a causa della visione di qualche film di cattivo gusto, ce ne erano pur sempre tanti altri.... Oggigiorno, invece, con il concetto di benessere infantile la società è drasticamente cambiata nel suo modo di vedere i bambini e le loro esigenze: film d’animazione con scene così raccapriccianti non sono stati più prodotti ultimamente. Ma come comportarsi con quelli già usciti e divenuti a tutti gli effetti dei “classici”? Se ci sono scene che possono spaventare il bambino, è decisamente errato per un genitore deridere il figlio solo perchè si spaventa, dovrebbe più che altro comprenderlo e rassicurarlo, evitare di riproporgli certe scene, ma anche ridicolizzarle e riproporle in termini satirici (come nelle parodie tipo Scary Movie) può essere utile. D’altra parte, nell’era di Netflix e dei canali tematici per bambini vi sono così tanti film adatti per loro che il fargli visionare proprio alcuni che li potrebbero potenzialmente spaventare si rivela in fin dei conti superfluo. Al limite, se proprio si vogliono proporre simili film, il suggerimento è di farli visionare solamente a bambini grandi (dai 10 anni compiuti in su), che obiettivamente si dovrebbero spaventare molto meno rispetto a quelli più piccoli. E infine, per quanto riguarda i film ad episodi, come Fantasia, la soluzione è semplice: basta selezionare quegli episodi più adatti alla visione dei bambini e lasciar perdere quelli che al contrario non lo sono.

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWS.

Soldi, fama e disvalori: ecco le nuove popstar che ascoltano i nostri figli - parte 1

La strada per la fama e il successo è una di quelle strade tra le più aspre e difficoltose, che solo pochissime persone al mondo riescono a percorrere fino in fondo. E quando si arriva a destinazione, non è detto che sia stato un bene l’averla intrapresa. In ogni caso la fame di fama, per usare un gioco di parole, è oggi viva più che mai, e per raggiungerla si utilizza qualunque mezzo, non escluso quello di apparire come cattivo esempio alle nuove generazioni, pur di essere conosciuti e apprezzati. Da Miley Cyrus che fuma marijuana agli MTV Ema Awards, in diretta TV (Huffington Post, 22-1-2019), ad Ariana Grande che sculetta allegramente a 4 zampe e intona: “Mi piace, lo voglio, lo prendo” (Il Fatto Quotidiano, 16-9-2019). Renato Pozzetto esclamerebbe: “Eh la Madonna!”. E sì, c’è anche Madonna, arrivata al suo concerto con 3 ore di ritardo e salita sul palco ubriaca fradicia (Today, 20-1-2016). Sono solo una manciata delle innumerevoli esibizioni “originali” delle più celebri popstar dei nostri giorni. Ah, ovviamente ce n’è anche qualcuna di un’altra era − ad esempio Madonna − evidentemente in preda a crisi di mezza età e conseguente desiderio di apparire moderna e disinibita al pari delle odierne teen popstar. Ma al di là di qualche isolata popstar del passato, oramai quasi caduta nel dimenticatoio, quel che è più preoccupante è come siano le NUOVE generazioni di popstar a imporsi e comunicare alle nuove generazioni di amanti della musica. É noto che produrre brani carini e che possano piacere sia per la melodia sia per le parti cantate non è sufficiente per poter raggiungere la tanto agognata fama, bensì è necessario anche (e soprattutto) farsi notare. Ma se ci si fa notare per cause positive e apparendo come brave ragazze o bravi ragazzi si finisce nel paradosso di essere bollati alla stregua di personaggi noiosi, piatti e conformisti; al contrario se si appare come ribelli, selvaggi, anti-establishment e cattivi ragazzi o cattive ragazze, allora in tal caso si acquista più carisma e dunque più fama. Prendiamo proprio due tra le più celebri popstar di oggi come esempio: Ariana Grande (che di “grande” ha però pochissimo, essendo alta come una bambina di 10 anni) e Miley Cyrus, l’ex reginetta della Walt Disney che fuma più di Bob Marley, Wiz Khalifa e Snoop Dogg messi insieme. Sono entrambe delle cantanti senza oggettive doti canore di rilievo, tant’è che la prima ha vinto un unico Grammy Award e la seconda nemmeno mezzo. Un numero bassissimo pensando che si tratta di cantanti con svariate decine di milioni di fan sui social e miliardi di visualizzazioni su YouTube alle loro canzoni più importanti. Tanto per intenderci, se facciamo il parallelo con una leggenda della musica come Bruce Springsteen, possiamo notare che questi ne ha ottenuti addirittura 20 di Grammy. Però ovviamente stiamo parlando di una leggenda vivente; a ogni modo, se facessimo il parallelo con un’altra cantante pop della stessa loro generazione, e cioè Taylor Swift, potremmo notare che quest’ultima ha ottenuto ben 10 Grammy. A questo punto potremmo dedurne che si tratta di cantanti le quali, non potendo farsi notare per la loro bravura in quanto artiste, devono per forza farsi notare in altro modo, ovvero dando cattivi esempi alle nuove generazioni. E se si parla alle nuove generazioni, questo gioco è facile: basta fare le disinibite, le ribelli che pongono in atto ciò che è vietato e/o è avversato dalla maggior parte della società civile…tutte cose che strizzano l’occhio ai giovani che si trovano nella fase della vita in cui provano dei sentimenti di ribellione contro i genitori, la scuola, la società in generale e così via. Paradossalmente si tratta di VIP che rappresentano cattivi esempi e proprio per tale ragione sono considerati da seguire. Tutto ciò lo sanno bene i vari manager dei nuovi “bad guys” o delle nuove “bad girls” (a riguardo è esemplare Rihanna, che su Instagram si è data il nickname “BadGalRiri”, cioè “Riri, la cattiva ragazza”), che non perdono l’occasione di incitare le popstar di oggi a mettersi in mostra in tal modo, proprio al fine di incrementare notorietà e (dunque) guadagni. Ma lo sanno bene anche gli organizzatori dei tanti eventi − in particolar modo festival − che pertanto colgono la palla al balzo e cercano di accaparrarsi tali popstar al fine di vendere più biglietti possibili. D’altra parte stiamo pur sempre prendendo in considerazione star che hanno decine di milioni di follower sui social, al contrario di quanto invece accade per molti cantanti più “impegnati” e acclamati dalla critica, che spesso e volentieri ne hanno moltissimi di meno. Riprendendo in considerazione Bruce Springsteen, si può notare che egli ha solo un milione scarso di follower su Instagram, al contrario dei 165 di Ariana Grande o dei quasi 100 di Miley Cyrus. Tutto ciò ci porta a questa conclusione: tipicamente i cantanti più impegnati, che piacciono di più alla critica, piacciono però molto di meno alle masse, che invece ne preferiscono altri che sono generalmente snobbati dalla critica. D’altra parte i grandi critici musicali potrebbero mai parlare a favore di chi canta brani dal contenuto sessuale così esplicito e così volgare, oppure di chi si fa ritrarre perfino in pubblico e perfino dinanzi a milioni e milioni di telespettatori con una canna in mano?! Certo che no! Ma a ogni modo ci sono pure delle eccezioni alla regola che fanno ben sperare nel destino dell’arte, della cultura e…di questo mondo: ad esempio cantanti come Taylor Swift o Bruno Mars sono apprezzati molto sia dalla critica che dal grande pubblico. Purtroppo, però, ciò che sta succedendo al giorno d’oggi è che le nuove generazioni antepongono la quantità alla qualità e seguono un tale VIP più per un fatto che è famoso in sè che per il fatto che sia o meno degno di essere seguito (in tutti i sensi). D’altra parte per un ragazzo è una questione di sicurezza: se sono fan di un cantante famosissimo, amato e conosciuto da centinaia di milioni di altri ragazzi, allora posso essere ben visto e ben accettato; se al contrario sono fan di un cantante più di nicchia, “underground”, di conseguenza sarebbe più difficile farsi accettare. Allo stesso modo, se mi reco ad un festival ove si esibisce come headliner (cioè come artista principale) un cantante i cui brani su YouTube sono stati visti da miliardi persone, è molto più probabile che se faccio foto e video e poi li posto, questi ottengano tantissimi like, reactions, commenti, visualizzazioni e condivisioni in più rispetto al caso in cui mi sia recato a vedere un cantante di nicchia (magari perchè impegnato) e dunque fatto e postato le relative foto e i relativi video. Triste ma vero. E l’ho anche constatato di persona l’anno scorso a Budapest: infatti, essendomi recato allo Sziget (un famosissimo festival artistico-culturale della durata di una settimana) ho poi letto i giornali che ne trattavano e dunque sono venuto a conoscenza del fatto che il giorno in cui c’era meno gente era quello in cui l’headliner era Kendrick Lamar − pluripremiato rapper con alle spalle oltre 10 Grammy, nonchè unico rapper ad aver mai vinto prima d’ora il premio Pulitzer − e ciò pertanto la dice lunga sul fatto che la gente preferisce la quantità alla qualità. Ne è la riprova che il giorno in cui c’era più gente è stato invece quello che vedeva come headliner Shawn Mendes − l’ennesimo cantante pop dell’ultima ora, con oltre 50 milioni di fan e molto amato dai giovanissimi, non a torto definito “il nuovo Justin Bieber”− e pertanto il festival era a dir poco stracolmo di famiglie con ragazzini (o bambini?) al seguito, dell’età media di 14/15 anni. Ed ecco perchè queste nuove popstar riempiono i festival: avendo una fanbase di ragazzini (ma anche proprio bambini), ne conviene che questi debbano per forza essere accompagnati, poichè non potrebbero entrare ai festival da soli. E chi li accompagna se non mamma e papà? Infatti sono proprio loro ad accompagnarli, pagando necessariamente il biglietto d’ingresso benchè possa pure importargli meno del nulla di provare l’ebbrezza di assistere a un concerto di cantanti a loro sconosciuti che si esibiscono dinanzi a una pletora di ragazzini urlanti con lo smartphone in mano. E se ognuno di questi ragazzini portasse pure fratelli, sorelle o amici con relativi genitori, gli introiti salirebbero ancora di più. Puntare invece a far esibire a un festival artisti per ragazzi quantomeno maggiorenni potrebbe causare problemi interni all’evento stesso (i giovani lasciati senza genitori potrebbero ubriacarsi, fare uso di stupefacenti e dunque arrecare tutta una serie di danni che andrebbero dal vandalismo fino alle risse più gravi, passando per la necessità di essere soccorsi da personale medico e paramedico allorchè si sentono male), mentre invece puntare ad artisti più “storici” potrebbe comportare difficoltà di altro tipo: cantanti che hanno fatto la storia della musica e si esibiscono ancora come Bruce Springsteen, Bob Dylan, Roger Waters e i due Queen e i due Beatles ancora in vita possono costare ben oltre il milione di dollari a concerto (pensiamo che attualmente la band in assoluto più costosa al mondo sono i Rolling Stones), ragion per cui i prezzi di ingresso potrebbero farsi proibitivi; inoltre un pubblico più adulto è necessariamente − e giustamente − più esigente: potrebbe pertanto infastidirsi se ci sono molte file, si aspetterebbe di mangiare e bere bene ed avere a disposizione un’adeguata area lounge in cui rilassarsi…. Allo stesso modo, avendo più esperienza alle spalle, potrebbe accorgersi di più di eventuali difetti dell’organizzazione (un palco non adeguatamente allestito, un impianto non all’altezza dell’evento, orari delle esibizioni non sempre rispettati…). Quindi in fin dei conti gli organizzatori dei grandi festival internazionali preferiscono generalmente piazzare come piatto principale proprio cantanti pop molto conosciuti e seguiti sui social, soprattutto dai giovanissimi. Indipendentemente da quanto essi siano effettivamente riconosciuti di valore dalla critica e indipendentemente dai valori e dagli esempi che essi possono veicolare alle nuove generazioni. Anzi, anche meglio se sono snobbati dalla critica e se danno cattivi esempi: così acquistano ancora di più la fama di ribelli e vengono apprezzati dai giovani, quegli stessi giovani che ricercano volutamente questo tipo di celebrità come esempio, perchè se invece si seguisse qualche cantante più impegnato si correrebbe il rischio di essere bollati dai propri pari come secchioni, dunque sfigati, dunque emarginati sociali, dunque elementi da escludere e/o bullizzare.

Ma in tutto ciò, c’è qualcosa che potrebbe fare un genitore se si accorgesse che un figlio stia seguendo dei cattivi esempi, benchè comunque ostentati da celebrità come quelle passate in rassegna fino ad ora? Certo che c’è! E non una, ma più cose. Le vedremo tutte dettagliatamente nel mio prossimo articolo.

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWS.

Soldi, fama e disvalori: ecco le nuove popstar che ascoltano i nostri figli - parte 2

Nell’articolo precedente abbiamo passato in rassegna le popstar che dominano l’odierno panorama musicale e la conseguente influenza sociale che le stesse possono avere soprattutto nei confronti dei giovanissimi. Un aspetto di questa società che nessun genitore o insegnante dovrebbe ignorare, poichè ignorarlo equivarrebbe ad ignorare la giusta educazione dei giovani e il relativo giusto sistema etico e valoriale che gli stessi dovrebbero acquisire. Siccome però tale influenza sociale negativa è posta in essere da personalità di spicco − molto ben considerate dai minori − come delle star della musica, allora diventa più difficile per gli adulti farsi sentire nella loro mission educativa. Difficile, ma non impossibile. Al fine di limitare l’influenza sociale negativa che i cattivi esempi dei mass media veicolano verso i giovani, gli adulti potrebbero (e dovrebbero) mettere in atto fondamentalmente tre strategie:

1. Istruire il proprio figlio a una reale cultura musicale. La maggior parte dei ragazzi che segue cantanti che danno cattivi esempi lo fa anche e soprattutto poichè non ha reali alternative: avendo una cultura musicale pari pressochè a zero, non si accorge che possono esserci molti altri artisti e generi differenti da seguire e a cui appassionarsi. In ciò è spesso complice la scuola, che fa educazione musicale tralasciando praticamente tutto il novecento e il nuovo millennio. Ma un genitore può benissimo fare le veci del docente, ad esempio trovando brani di altri artisti e di altri generi su YouTube e facendoli ascoltare al proprio figlio: blues, soul, jazz, gospel, country, folk, funky, experimental, world music…vi sono tantissimi generi tralasciati dal panorama musicale mainstream internazionale, non farli conoscere ai millennials vuol dire un po’ farli morire. E facendoli morire, si fa morire anche la cultura stessa. D’altra parte cos’è la cultura, in ambito musicale, se non venire a conoscenza di generi, brani ed autori/compositori che prima erano ignoti? Ovviamente generi, brani ed autori/compositori che possono poi piacere oppure no, ma prima di tutto occorre ascoltarli; solo dopo l’ascoltatore (ad esempio il figlio a cui si fanno ascoltare queste cose tramite YouTube) potrà esprimere un giudizio, non prima! Prima si ascoltano, poi se piacciono ok, sennò non fa niente…si passa a brani, generi e autori/compositori successivi 

2. Spiegare che apparire “critici” (!) verso la società, comportandosi in modo provocatorio, volgare, illegale e pericoloso − veicolando così dei cattivi esempi per chiunque segua tali condotte ed atteggiamenti − non è di per sè la strada verso il successo. Ovviamente il millennial ribatterà che non può essere così perchè chi palesa tali condotte ed atteggiamenti sono VIP, persone di successo con tantissimi soldi, fan, eccetera, eccetera…però qui si commette un errore di pensiero: si chiama bias della disponibilità e consiste nel sovrastimare come probabili avvenimenti e situazioni dal grande impatto emotivo…che però non sono così frequenti come si potrebbe pensare! Si tratta solo di un brutto scherzo che ci giocano le nostre emozioni: ad esempio dato che il solo pensiero di diventare ricchi vincendo alle slot machine ci piace molto, allora lo teniamo anche più frequentemente nella nostra testa, tra i nostri pensieri, piuttosto che pensare che le probabilità reali di farcela sono pari allo zero virgola e non si sa quanti altri zeri dopo. Ciò accade poichè non siamo delle macchine, dei software, ed è normale che si ragioni più in termini emotivi che in altri statistici. Dunque sarebbe da controbattere bene che non vuol dire che se Ariana Grande è diventata una grande (statura esclusa) muovendo le natiche e intonando “Mi piace, lo voglio, lo prendo”, allora TUTTE le ragazze un po’ carine (e soprattutto svestite e provocanti) che fanno cose di questo genere, da caricare poi sui social, diventino famose. Occorre aprire gli occhi. Su Instagram, ad esempio, ci sono tantissime belle ragazze che nonostante abbiano migliaia di follower hanno difficoltà a monetizzare (di belle ragazze ce ne sono tante, di brand disposti a pagare bene per pubblicizzare i loro prodotti tramite le influencer di Instagram molti di meno), e molte di loro hanno imitato questi “cattivi esempi” proprio illudendosi di poter diventare ricche e famose come loro. Illudendosi.

3. Insegnare ai figli quali sono i “cattivi esempi” e non abbandonarli in loro balia; impegnarli piuttosto in attività più utili e importanti. Molto spesso i ragazzi di oggi sono poco sorvegliati e lasciati a loro stessi. Magari ci sono anche famiglie in cui si parla poco e di cose poco importanti, pertanto è difficile per un ragazzo capire quali esempi sono da seguire e quali no. Ma dato che tali nozioni sono troppo importanti per essere degne di essere inserite nei programmi scolastici, sta alla discrezione del docente parlarne in classe o meno. Stando così le cose, è fondamentale per un genitore insegnare al proprio figlio quali sono gli esempi da seguire e quali quelli da evitare. Infatti vi sono sia esempi buoni sia altri negativi, e l’importante è capirne la differenza. A ogni buon conto, se ad esempio una ragazzina di 13 anni ha tanto, troppo tempo da dedicare ad Ariana Grande, Miley Cyrus, Billie Eilish, Natti Natasha, Cardi B, eccetera, vuol dire che evidentemente sta tralasciando attività a lei più importanti, prima tra tutte lo studio. Stanno dunque al genitore la responsabilità e il dovere di intervenire in tali casi.

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWS E NOI DONNE.

Dall'istinto al porno: ecco le cause più recondite della violenza sulle donne

Al giorno d’oggi sentiamo spesso un gran parlare di violenza sulla donna, un dato che non stupisce tanto se pensiamo che quotidianamente emergono news di cronaca nera narranti le tristi storie di donne di qualsiasi etnia e ceto sociale le quali rimangono loro malgrado vittime di episodi di violenza di vario genere ed entità. E forse se ne parla così tanto proprio perchè è un fenomeno che solo recentemente − da un punto di vista storico − è emerso agli occhi e alle orecchie della società occidentale. Dopotutto fino a pochi decenni fa, con il regnare del concetto di famiglia e società patriarcale, non si dava gran peso al fatto di alzare le mani verso chi era posto sui gradini inferiori della scala sociale, ovvero donne e bambini. Le molteplici e fantasiose iniziative poste in essere dalla società civile al fine di condannare questa violenza e mostrare solidarietà nei confronti delle vittime di tale fenomeno (mostre, premi letterari, cortei, affissioni varie, apposita personalizzazione dell’immagine del profilo di Facebook, tam tam sui social, realizzazione di opere e manufatti simbolici...) possono essere utili al fine di sensibilizzare la cittadinanza su tale problematica sociale, ma prescindono da qualsiasi possibilità pratica di indurre la cessazione del fenomeno stesso. Esemplificando, parrebbe assurdo immaginare che un uomo il quale è avvezzo a picchiare la sua compagna un bel giorno smetta di farlo solo perchè vedendo un po’ di foto e post su Facebook contornati dall’hashtag “NO ALLA VIOLENZA SULLE DONNE” oppure assistendo alla condanna di tal cosa da parte di qualche associazione, opinionista o politico vario, si convinca che ciò sia effettivamente un atto riprovevole e pertanto smetta di porlo in essere. Se fosse così semplice far cambiare atteggiamenti alle persone allora basterebbero le etichette del tipo “Il fumo uccide” sui pacchetti di sigarette per farle smettere di fumare e l’avvertenza “Il gioco può creare dipendenza patologica” al fine di evitare la dipendenza psicologica dal gioco. Purtroppo non è così, perchè fortunatamente la mente umana è troppo complessa per poter funzionare in maniera così semplice e meccanica. E soprattutto, nella mente coesistono emozioni e razionalità: le prime portano a condotte molto spesso istintive, la seconda ad altre che sovente sono oggetto di attenta pianificazione e valutazione. Quando l’uomo alza le mani sulla donna non lo fa quasi mai con razionalità − e ciò è confermato anche dalle numerose sentenze che specificano che gli atti violenti nei confronti della donna non erano premeditati − ma con istintività e rabbia, dunque facendosi guidare dall’emotività. Quando qualche donna mi dice che il suo uomo non manifesta mai delle emozioni con lei, la tiro su di morale rispondendole che dovrebbe considerare anche il rovescio della medaglia: se lui manifestasse delle emozioni, ma negative, non sarebbe di gran lunga peggio? La violenza sulle donne è dunque un comportamento istintivo posto in atto a seguito del manifestarsi dell’emotività di un uomo, in particolar modo riconducibile alla sfera della rabbia, del rancore, un’emozione che − come tutte le altre emozioni − è prodotta dal sistema limbico, una parte molto primitiva del nostro sistema nervoso, che ha fatto la sua comparsa di gran lunga prima del lobo prefrontale, ovvero la parte del cervello più deputata al ragionamento critico e alla razionalità. Usare la violenza vuol dire dare sfogo ai nostri istinti primordiali, veicolati principalmente da paura e rabbia, che d’altra parte si sono rivelati adattivi da un punto di vista evoluzionistico in quanto ci hanno permesso di sopravvivere in millenni di storia evolutiva. Ovviamente in una società civile bisognerebbe dare spazio più che altro alla razionalità, ma la mente è spesso legata a componenti più primordiali quali le emozioni...e sta a noi scegliere quale delle due strade seguire: quella della razionalità o quella dell’istinto. E molti uomini scelgono proprio quest’ultima.

Ora viene lecito chiedersi come mai in una società civile come quella odierna può mai accadere che le emozioni prendano il sopravvento, come mai la civiltà non sia in grado di elevare un uomo dalla sua condizione di fiera selvaggia, quale è stata non per sua volontà sin dalla notte dei tempi. Per quanto sarebbe idilliaco pensare che un giorno la civiltà ci renda esseri perfettamente razionali ed equilibrati, tutti cittadini e genitori modello, c’è da constatare che però molto spesso è la civiltà stessa a (ri)condurre un individuo alla sua natura bestiale, inducendolo a dare sfogo totale alle sue pulsioni e al soddisfacimento dei piaceri più venali. Questo è quanto fa ogni giorno − o forse meglio “ogni notte” − l’industria pornografica, i cui profitti si basano proprio sullo sfruttamento dell’indole bestiale celata in qualsiasi uomo. La pornografia permette di poter soddisfare i desideri e le pulsioni più recondite dell’animo umano, qualunque esse siano, alimentando − se utilizzata in eccesso − deliri di onnipotenza, derealizzazione, dipendenza psicologica e molte altre psicopatologie. Ma la pornografia − soprattutto se di tipo violento, dunque sadomaso o hardcore o comunque se basata su taluni atti sessuali implicanti violenza e/o umiliazione − può anche giocare un ruolo chiave nel determinare la liceità, per un uomo che ne fa uso ingente, della violenza sulla donna: infatti c’è uno stretto legame tra la violenza fisica di tipo sessuale e quella fisica di tipo offensivo, e purtroppo tale distinzione non si fa quasi mai, tanto si sente distinguere la violenza solamente in fisica e non verbale/psicologica. Ma la violenza fisica, riguardo alle donne, è anche di diversi tipi, a seconda del contesto: può essere infatti messa in atto per punire una donna o invece solo per provare dell’appagamento sessuale. In tantissime pratiche sessuali oggetto di video pornografici e facilmente reperibili in rete, la donna è molto spesso raffigurata come mero corpo-oggetto, tant’è che potrebbe sembrare quasi una sorta di bambola gonfiabile giusto un tantino più evoluta e dinamica della sua equivalente di gomma, è tipicamente passiva − ragion per cui è l’uomo che decide cosa fare e lei accetta ed esegue senza battere ciglio − e pertanto si fa mettere le mani addosso (e ovviamente non solo quelle) subendo qualsiasi tipo di pratica e manipolazione possibile e immaginabile. Ora, se un uomo che fa largo uso di pornografia, che spende tutto nel night club e se ha ancora qualcosa da spendere lo utilizza per andare con qualche escort che facilmente si può trovare online (o che tali cose le ha fatte in passato, ma comunque sempre in maniera tangibile e sistematica) arriva a considerare lecito poter fare ciò che vuole del corpo di una donna, almeno in ambito sessuale, potrebbe anche arrivare a pensare che se è lecito fare tutto ciò, allora ragionevolmente lo è anche farlo per altre ragioni, come quella di voler punire una donna. Il passaggio tra la violenza sessuale e quella offensiva può essere pertanto molto, ma molto breve, e qualsiasi donna − sebbene consenziente − la quale a vario titolo (ottenimento di soldi o di favori, voglia di imitare le pornostar del web, desiderio di vendicarsi dell’ex sperimentando cose molto più spinte con il nuovo partner...) si presti a subire “violenza” sessuale, ovvero a pratiche sessuali che ne fanno uso, dovrebbe essere conscia che così facendo potrebbe essere lei stessa a favorire l’insorgere della violenza su una sua pari. D’altronde si sa che la violenza genera violenza, ma è il caso di specificare che la violenza − di qualunque tipo sia − genera violenza.

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWS.

Miglioramento personale: opportunità o scommessa?

Il frangente in cui si trova la nostra società porta a inevitabili riflessioni e bilanci nell’esistenza di ognuno di noi, ma allo stesso tempo porta anche più tempo e più voglia di lavorare su noi stessi. Ed ecco che il desiderio di divenire persone migliori fa il suo ingresso nella nostra mente, benchè non tutte le persone vogliano veramente migliorarsi: molte lo desiderano, ma tale desiderio prende più le sembianze di un mero e rilassante esercizio della fantasia, un sognare ad occhi aperti che permette − anche solo per pochi minuti − un momentaneo distacco dalla rigida, fredda e inevitabile routine quotidiana. Nulla di più. Infatti non basta volere qualcosa, ma serve anche adoperarsi attivamente per riuscire ad ottenerla, altrimenti ciò che si vuole rimarrà sempre e soltanto un sogno irrealizzato. Non che nella vita non si debba sognare, anzi, può anche essere piacevole e terapeutico...ma assolutamente non si deve incorrere nell’errore di fare della propria vita un sogno. La vita, che piaccia o meno, è realtà e come tale va vissuta e affrontata. Nel migliore dei modi possibile. Ecco perchè il miglioramento personale è di fatto uno strumento fondamentale al fine di affrontare tutte le sfide che la vita ci pone dinanzi. In merito a ciò, alcune persone vedono il miglioramento personale come un’opportunità, una grande e importante opportunità; altri − più critici − la vedono invece come una scommessa verso se stessi, il che implica che si possa vincere o perdere. Ma in realtà il miglioramento personale è entrambe le cose: opportunità − poichè può aiutare veramente a vivere una vita migliore − e anche scommessa, dal momento che non sempre si riesce a ottenere nei termini prefissati, ovvero secondo le proprie aspettative. Ovviamente con l’aiuto di un professionista il miglioramento personale diventa più facile, poichè si ha qualcuno al proprio fianco − come un mister, un allenatore con la propria squadra o il proprio atleta da seguire − che aiuta a stabilire degli obiettivi e a fornire degli strumenti e delle tappe per raggiungerli. Dal momento che nessuno è perfetto e che la perfezione non esiste, è innanzitutto fondamentale doversi porre degli obiettivi realistici, che non siano pertanto delle chimere. Molte persone che si avvicinano al miglioramento personale in modo ingenuo commettono infatti il diffuso errore di prefiggersi obiettivi soggettivamente ritenuti raggiungibili, ma oggettivamente irraggiungibili, che proprio in quanto tali non fanno altro che creare frustrazione in chi cerca di raggiungerli fallendo inevitabilmente. Ad esempio una persona che ha chiesto il mio intervento professionale a seguito del suo divorzio e della conseguente necessità di riorganizzare la sua vita, voleva sì migliorare, ma si prefiggeva obiettivi del tutto inidonei per le sue possibilità: in particolar modo nel giro di qualche mese voleva recuperare la forma fisica, riordinare e riorganizzare la casa (cosa peraltro molto ardua anche in quanto si trovava sempre fuori per lavoro) e pure cambiare vettura. Abbiamo dovuto innanzitutto lavorare sul ridimensionamento degli obiettivi: ok quindi alla forma fisica, ma senza esagerare (evitare un accanimento con la palestra e l’attività motoria, no a diete iperproteiche e ad integratori farmaceutici...) e anteponendo l’obiettivo del dimagrimento a quello dell’acquisizione e del mantenimento della massa muscolare; la casa poteva sì essere riordinata, ma dando priorità alle stanze più importanti e maggiormente utilizzate, lasciando per ultime quelle accessorie e meno utilizzate; il cambio dell’auto, infine, poteva essere del tutto eliminato dal momento che in realtà non c’era una reale necessità di cambiarla, ma si trattava più che altro una consolazione post-divorzio. Alla fine riuscì veramente a raggiungere questi obiettivi − realistici − e si rese anche conto che a 43 anni era inutile doversi dedicare al fitness in modo pervasivo, così come non c’era necessità alcuna di ricomprare l’auto. Vi era invece la necessità di passare più tempo con i figli e con gli amici, entrambe cose che all’inizio non aveva per nulla considerato, ma che infine capì fossero molto più salienti rispetto ad altre a cui inizialmente diede priorità. Di conseguenza, a fine terapia aveva raggiunto degli invidiabili obiettivi di miglioramento personale per quella che era la sua esistenza, avendo però prima dovuto gradualmente mettere in discussione − e conseguentemente rimuovere − quelle sue aspettative erronee inerenti il suo futuro che si era dapprima posto e che, non riuscendo ad ottenere, non facevano altro che essere fonte di stress, di scoraggiamento e di commiserazione senza fine.

Un errore ancora più grave del porsi obiettivi irrealistici e/o inutili è però quello di non porseli proprio, ovvero di rinunziare in toto al miglioramento personale. Infatti la rinuncia equivale a un fallimento certo e totale, e magari è pure peggio poichè da quest’ultimo si può apprendere qualcosa, che invece non si apprenderebbe se si rinunciasse anche solo a provarci. A riguardo, è esemplare ciò che accade con gli esami universitari: c’è chi li tenta e ha dunque la possibilità di superarli e chi non si presenta proprio e non ha nessuna probabilità di riuscita. Ovviamente chi si presenta a sostenere l’esame può essere più o meno preparato, ma anche chi è (molto) poco preparato ha qualche piccola possibilità di riuscita: magari l’esame è facile, capitano domande su argomenti che si conoscono bene, il professore è di buon umore, si riesce anche a copiare...chissà. In ogni caso, anche se non si dovesse passare l’esame si imparerebbe qualcosa in più per la prossima volta (le domande, le difficoltà incontrate dagli altri studenti, eccetera). Pertanto appare obiettivamente un comportamento erroneo quello della rinuncia e del non agire, che non porterebbe a nulla e nulla ci farebbe ottenere.

La vita può offrirci tante cose, e migliorare noi stessi vuol dire essere in grado di ottenerle. É questa un’opportunità lunga un’esistenza (perchè non è mai troppo presto, nè troppo tardi per migliorarsi), ma anche una scommessa con noi stessi. La scommessa più importante che potremmo mai fare nella nostra vita. Usando una metafora, la vita è un mosaico formato da tanti tasselli, alcuni più grandi, altri più piccoli, che nel passato abbiamo posto e nel presente aggiungiamo per costruire il nostro futuro. Dunque, se non facciamo, se non poniamo i tasselli che andranno a comporre il mosaico della nostra vita, questa vita non la vivremo mai. Ovviamente, però, è fondamentale che questi tasselli che si andranno a porre siano quelli giusti; di conseguenza l’impegno auspicabile in ognuno di noi è quello di migliorarsi ogni giorno, sempre di più, con un grande e nobile obiettivo:

 

Fare della propria vita un autentico e personale capolavoro

 

Giovanni Paolo II

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWS.

L'influenza dell'inconscio sulla sessualità umana

Chiunque abbia visto Eyes Wide Shut non può aver dimenticato la fatidica sentenza che chiude il film, pronunciata dalla protagonista Nicole Kidman: “Dobbiamo scopare”. Se questa è forse l’unica battuta presente nel testamento cinematografico di Stanley Kubrick, è anche una frase direttamente originata dagli effetti di quel dramma borghese e di quella crisi di coppia che accompagnano Tom Cruise e Nicole Kidman per tutto il film. In quel frangente, è il buon senso a parlare e a far dire alla star di Hollywood quella fatidica affermazione che allo stesso tempo assegna una grande importanza al ruolo della sessualità all’interno di una relazione, ma che allo stesso tempo evidenzia tutti quei limiti conoscitivi che qualsiasi normale coppia ha sull’intimità fisica. E che non ha nessuna colpa a riguardo. D’altra parte chi potrebbe essere responsabile della scarsa conoscenza di ciò che nella nostra società è a tutti gli effetti un tabù? Ma è proprio la sua natura di “tabù” ad aver assegnato alla sessualità un ruolo chiave in determinati settori economici, in particolar modo legati alle “arti” visive. Pensiamo ad esempio ai film erotici di Tinto Brass prima e ai siti pornografici dopo: entrambi sono e sono stati di successo proprio perchè la società alimenta la condizione di tabù nei confronti della sessualità, e dato che ogni cosa avvolta da un’aura di mistero, trasgressione e fuga dalla normalità diviene di fatto più ambita, ne consegue l’enorme successo che l’industria della sessualità ha avuto e ha ai nostri giorni. Di fatto, se la sessualità non fosse un tabù, non fosse dunque sottoposta a censura, non vi sarebbe pressochè alcun interesse a navigare su siti web quali Youporn o Pornhub, che al contrario riescono a ricevere un traffico internet elevatissimo (ad esempio Pornhub è uno tra i dieci siti più visitati in Italia) e a fatturare guadagni da capogiro. Con la diretta conseguenza che se è possibile, tramite il semplice gesto di collegarsi a un qualsiasi sito porno, farsi una conoscenza vastissima di pratiche sessuali, non è però allo stesso modo facile comprendere cosa sia realmente la sessualità e come inserirla correttamente nella realtà della vita di coppia, in contrapposizione a quello che è il mondo favolistico e utopistico visibile nel porno online. In altri termini, se dunque le conoscenze quantitative relative alla sessualità si possono facilmente ottenere semplicemente collegandosi a un sito come Pornhub, non è però allo stesso modo semplice ottenerne di altre di tipo qualitativo su tale argomento. E la coppia ne risente. A cominciare dal cosa “significhi” la sessualità in una relazione, soprattutto se si tratta del primo rapporto sessuale tra due persone che si stanno frequentando. A partire dalla prima volta che due individui impegnati in una reciproca conoscenza decidono di farlo, l’atto sessuale assume un’importanza fondamentale poichè racchiude in sè un palese valore simbolico, consistente nel sancire l’avvio vero e proprio della relazione, che passa così da semplice conoscenza a rapporto di coppia. “L’abbiamo fatto, quindi ora non siamo più amici, ma stiamo insieme”. Questo è il senso che ha il primo rapporto intimo tra due persone, un senso che risponde altresì a precisi principi di matrice evoluzionistica: dato che la finalità biologica dell’atto sessuale è procreativa, e lo sarà per sempre (poichè il nostro inconscio − che è lo stesso di quando abitavamo nelle caverne − è biologicamente strutturato per ritenere che la finalità sia tale e solo tale), la volontà di avviare una relazione con la persona con cui abbiamo consumato l’atto sessuale risponde alla necessità di stare insieme per poter crescere il futuro figlio o i futuri figli. Personalmente mi sono reso conto della veridicità di tale principio evoluzionistico anche in terapia: ad esempio coppie che non avevano figli e che non intendevano averli spesso presentavano disturbi sessuali, prevalentemente riconducibili alla mancanza di desiderio, all’insoddisfazione dell’atto sessuale e alle conseguenze di tali malesseri, che a loro volta causavano altri stati patologici ancora (ad esempio disfunzione erettile in lui, assenza dell’orgasmo e/o della lubrificazione vaginale in lei...). Tutti stati clinici che si scopriva poi essere legati alla visione della sessualità esclusivamente ludica e senza altra finalità. Infatti, se si toglie a una funzione biologica la finalità sua propria, la stessa non può che ritorcersi contro di noi, sia a livello fisico sia a livello psichico. Poniamo il caso dell’alimentazione: è ovvio che la finalità sia quella conservativa dell’organismo, perchè se non ci si nutre si muore; però non è assolutamente detto che si debba mangiare solo per questo motivo, anzi, la gastronomia e le ricette di cucina non esisterebbero se si concepisse l’alimentazione in un modo così basilare ed animalesco! Non potremmo avere tutti quei piatti regionali ed etnici che così tanto amiamo e ricerchiamo, nè tantomeno tutti quegli abbinamenti alimentari che rendono la nostra dieta meno monotona e aiutano a renderla variata. Ma se la finalità dell’alimentazione viene intesa come esclusivamente ludica, allora non potranno che verificarsi seri problemi di salute come l’obesità, l’ipercolesterolemia, i disturbi epatici...e patologie come la bulimia. Ciò avviene qualora questa funzione fisiologica − ovvero l’alimentazione − non viene più intesa come tale, bensì come puro e semplice soddisfacimento di un proprio desiderio (il piacere del palato), e perciò si esagera. Intendiamoci, è normale che si mangi (anche) per piacere, ma se si concepisce solo come una ricerca del piacere, questo piacere rischia di diventare un dispiacere! E questo gioco di parole vale anche per la sessualità: se si fa sesso solo per piacere, senza altra finalità di ordine superiore, a lungo andare diventa dispiacere. Infatti, dal momento che la vera e propria finalità della sessualità è il concepimento, e la finalità ricreativa − benchè molto importante in un rapporto di coppia − passa in secondo piano per il nostro inconscio, ne consegue che spesso le coppie che stanno insieme da tanto tempo e ciononostante non hanno avuto e non vogliono dei figli, vivono il sesso (e molto frequentemente anche la loro unione in generale) come deludente. Ma qual’è la causa di tutto ciò? L’inconscio, quella parte della nostra mente così misteriosa, ma allo stesso tempo così quotidiana, che utilizziamo molto più di quanto pensiamo, dato che regola aspetti comunissimi della vita di ogni giorno quali il manifestarsi delle emozioni, l’attività onirica e anche il sesso. L’erezione, per un uomo, è un’attività inconscia, che in condizioni naturali avviene perchè è l’inconscio a decretare che in quel momento è necessario il coito e dunque che essa si verifichi; la lubrificazione vaginale e l’orgasmo, per una donna, sono pure manifestazioni dell’inconscio, che appunto avvengono a seguito dell’avvento di determinate fantasie nel flusso mentale e/o in risposta a determinati stimoli multi-sensoriali (visivi, olfattivi, uditivi, tattili, gustativi). D’altra parte è noto che le aree cerebrali che regolano l’attività sessuale sono estremamente antiche da un punto di vista filogenetico, cioè sono comparse in epoca antichissima e pertanto − così come per altre aree cerebrali molto antiche quali quelle che regolano il sonno, la fame, la sete e le emozioni − sono di tipo sottocorticale (la corteccia cerebrale ha infatti fatto la sua comparsa molto più tardi da un punto di vista evoluzionistico rispetto alle varie strutture poste al di sotto di essa) e governate dalla mente inconscia. Ed è l’inconscio a comunicare un risentimento nei confronti dell’atto sessuale fine a se stesso (soprattutto se frequentemente ripetuto), senza dunque la possibilità di procreare: in poche parole ci comunica che è inutile continuare ad avere rapporti sessuali con quel partner se poi da questi rapporti non nasce alcunchè. L’inconscio penserà bene che il nostro partner sessuale, con il quale noi coscientemente vogliamo fare sesso solo per divertirci, è probabilmente sterile e dunque non meritevole di tali attenzioni, che dovrebbero invece essere dirette a un’altra persona con cui al contrario è possibile generare una prole. Ovviamente l’inconscio non sa che è possibile avere dei rapporti sessuali con una persona solo per divertirsi e che magari non c’è alcuna intenzione di avere dei figli: questi sono concetti razionali, coscienti, che l’inconscio non capisce. Si potrebbe dire che inconscio e coscienza, irrazionalità e razionalità, parlano due lingue diverse e pertanto tra loro non si capiscono. Ma siccome è l’inconscio che regola l’attività sessuale, se non lo si prende in considerazione si rischiano gravi patologie in tale ambito. A tal proposito, dovremmo però anche lavorare di coscienza e razionalità, e accettare l’idea che l’atto sessuale non dovrebbe essere fine a se stesso, ma racchiudere − oltre alle già citate finalità ludiche − anche altre di tipo procreativo laddove le stesse siano effettivamente e obiettivamente attuabili. Ma torniamo all’esempio dell’alimentazione: abbiamo visto che mangiare solo per gusto può portare a conseguenze spiacevoli...e cosa dire però dell’esatto contrario, cioè quando il gusto diventa disprezzo? Cosa dovremmo dire dell’esagerazione opposta, ovvero quando l’alimentazione viene in tutto e per tutto osteggiata e si crea una particolare condizione patologica nota come anoressia? Anche questo eccesso è da evitare. Allo stesso modo potremmo fare l’esempio delle coppie in cui uno o entrambi i componenti avversano proprio l’attività sessuale o − peggio ancora − la utilizzano come ricatto o merce di scambio. A riguardo, ho sentito molte donne le quali − profondamente convinte del fatto che il loro corpo abbia un valore, che pertanto può essere utilizzato come merce di scambio − utilizzavano la sessualità come ricatto, ad esempio: “Se non ci facciamo quelle due settimane in quel resort di Zanzibar che ti dicevo, quello che ho trovato io su Booking e che come puoi vedere anche su Insta ci vanno a passare le vacanze anche i VIP (perchè io gli hotel li so scegliere), allora lo sai che continuo a essere così irritata, così delusa...e così irritata e così delusa come sto non mi va di farlo”. Ma poi ho notato che molti uomini, che forse hanno imparato dalle donne che un tale tipo di atteggiamento potrebbe tornare a proprio favore, tendono dal canto loro a fare praticamente gli stessi discorsi e dunque gli stessi ricatti, ad esempio: “Che vado o meno tutti i venerdì dagli amici a giocare a poker (che poi non sono tutti i venerdì, perchè l’altro venerdì non ci sono andato perchè il tuo compleanno è dovuto capitare proprio di venerdì), non è cosa che ti riguarda. Gli altri pure hanno la compagna, ma le compagne loro, a differenza tua, l’hanno capito che il venerdì si gioca. E se continui ogni volta a lagnarti di questa cosa non fai altro che stressarmi ulteriormente e mi fai venire il mal di testa...e allora poi non te la prendere se non mi va di farlo”. Ecco, questi due sono dei casi lampanti in cui la sessualità è fatta dipendere da condizioni terze, dalle quali si vuole ottenere un qualche vantaggio. Il concedere il proprio corpo diventa così moneta di scambio al fine di raggiungere un qualche obiettivo diverso dal sesso stesso. Se dunque un partner dice all’altro che lo farà, ma se e solo se vengono soddisfatte delle proprie richieste, allora vuol dire che l’interesse verso la sessualità è pari a zero, poichè la stessa diviene solamente un mero mezzo attraverso cui si cerca di arrivare a qualcos’altro. Anche in tal caso l’inconscio fa la sua parte e il sesso è reso poco o per niente piacevole: per chi si concede al fine di ottenere dei favori di qualche tipo diviene come un obbligo, un dovere, una faccenda da compiere (e quale appagamento si potrebbe ottenere da ciò?); per chi invece lo fa a fronte della promessa o della realizzazione di favori al partner diviene frustrante, meccanico e prosaico, e di conseguenza allo stesso modo poco o per nulla appagante. In conclusione, conviene non farsi prendere dagli eccessi nell’ambito della sessualità: il sesso dev’essere inteso come dinamica di coppia che può sì avere una finalità ludica, ma non dovrebbe essere limitato a ciò; deve inoltre essere distaccato dagli altri aspetti della vita di una coppia (soprattutto se problematici) e deve essere vissuto con assoluta serenità. Dato che l’inconscio non sa cosa sia il dovere, allora è inutile “obbligare” il sesso e le sue polimorfiche manifestazioni. Al contrario, è necessario che ci siano una serenità e una intesa di coppia tali da poterlo fare senza ansie e frustrazioni inutili. Non bisogna mai dimenticare che, in quanto simbolo di unione di una coppia, la sessualità riveste un ruolo chiave in una relazione, e viverla in modo sbagliato (o non viverla affatto) non può che privare la relazione stessa di una sua componente imprescindibile. Di qualità e non di quantità.

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWS.

Il mito (e il paradosso) del corpo perfetto nella società dell’apparenza

Superficiale, eccessiva, edonista, alienante e perfezionista. Non vi sono aggettivi migliori per poter sintetizzare la società in cui viviamo oggi. Una società in cui l’influenza sociale esercitata dall’alto (dunque in primis dai mass media) la fa da padrona. E che ci spinge a conformarci a un ideale di perfezione largamente incentrato sull’apparenza. Apparire (in senso positivo) vuol dire in primo luogo fornire un’immagine di sè socialmente accettabile. Un’immagine che però è fortemente incentrata sull’esteriorità e la superficialità. Ecco perchè l’aspetto fisico riveste un ruolo fondamentale nel farsi apprezzare esteriormente, ed ecco dunque spiegato il boom di settori economici quali la chirurgia estetica, le palestre, gli integratori alimentari, i centri estetici, eccetera. Questi settori hanno d’altra parte anche alimentato − principalmente attraverso ripetuti e martellanti messaggi pubblicitari − la creazione della necessità psicologica di dover avere un corpo perfetto, praticamente come quello di attori, attrici, modelli e modelle, atleti e quant’altre professioni in cui è richiesta una particolare cura all’aspetto fisico. Ma ovviamente in tali casi si tratta di persone che proprio a causa del mestiere che svolgono necessitano di avere un fisico quanto più possibile “perfetto”, cosa che però la società e i media non comunicano, e invece tendono maggiormente a generalizzare il concetto di “perfezione corporea” facendo dunque intendere che avere un corpo perfetto è un dictat a cui deve sottostare qualsiasi individuo. D’altra parte non è solo la pubblicità veicolante il messaggio diretto che si deve avere un corpo perfetto a comunicare tale cosa, ma anche quella che comunica tale concetto indirettamente, ad esempio tutte quelle pubblicità in cui la bellezza corporea è utilizzata come strumento al fine di sponsorizzare qualche altro prodotto, come quel tale profumo, bagno schiuma, rasoio, crema solare, vestitino e qualsiasi altro oggetto risalti meglio se affiancato a un fisico attraente. Pensiamo ad esempio ai tanti spot che nella stagione estiva riempiono gli schermi dei nostri device e che si soffermano sulle creme solari: una crema di tale tipo deve essere valida di sè e per sè, dunque non c’è differenza se viene spalmata su un corpo “in forma”, piuttosto che su uno “fuori forma”, però ovviamente siccome è più attraente un corpo del primo tipo, allora nella pubblicità le creme solari sono esclusivamente spalmate su tale tipo di fisico. In tal modo, l’influenza mediatica si fa indiretta, poichè sebbene l’obiettivo di quella tale pubblicità sia di far acquistare la tal crema del momento, si ha comunque l’effetto secondario di influenzare il giudizio altrui anche sull’aspetto della fisicità, benchè tale tipo di influenza esuli dagli intenti (economici) dello spot pubblicitario. Ora che siamo in estate e si esibisce di più il proprio corpo sia dal vivo sia attraverso i social, la (falsa) necessità di dover avere un corpo perfetto si fa ancora più pressante, portando con sè delle vere e proprie calamità sociali quali i disturbi alimentari e il giudicare il prossimo più per il suo corpo che per la sua mente. Ma i problemi non finiscono qui: solo per citarne alcuni, ve ne sono in particolar modo alcuni di ordine superiore (dunque che interessano la sfera del ragionamento critico), quali gli errori di giudizio. Tale tipo di errore nasce proprio dal paradosso che la perfezione è una chimera, ma allo stesso tempo la società odierna obbliga a doverla raggiungere. Ciò non può portare ad altro se non al dismorfismo corporeo, una vera e propria psicopatologia consistente nel considerare il proprio corpo diverso da come è veramente e a pretenderlo quindi uguale a un dato modello. Le conseguenze di tale squilibrio si fanno sentire in importanti e plurimi ambiti della vita, quali quello economico (se si va dal chirurgo estetico, se si comprano integratori, eccetera, allora è ovvio che il portafoglio si alleggerisca), fisico (gli interventi chirurgici possono avere conseguenze negative per il proprio corpo, così come gli integratori e l’allenamento eccessivo) e psichico. In particolare, relativamente a quest’ultimo ambito, occorre notare come oggi molta gente soffra di veri e propri stati disforici − ovvero stati emotivi negativi − in risposta alla mancanza di possesso del corpo perfetto così tanto sognato e idealizzato. Tali stati emotivi possono anche evolversi in stati psicopatologici gravi quali la depressione (si è giù di morale poichè non si possiede il fisico sperato), l’ansia (si è ansiosi di volerlo acquisire il prima possibile, oppure di raggiungere il prima possibile i risultati connessi al suo possesso, quali l’avere più follower e like sui social, più offerte di lavoro, più approvazione sociale, più match su tinder...), la fobia sociale (si evita il contatto sociale per non sentirsi inadeguati: ad esempio si potrebbe scegliere di non andare al mare proprio al fine di evitare di mostrare un corpo ritenuto non all’altezza dei canoni di bellezza imposti dalla società), fino ad arrivare ai disturbi alimentari. Comunque sia, alcuni di questi problemi − siano essi economici, fisici, psichici o di altro tipo − sono effettivamente notati da chi ne soffre, e benchè il poterli risolvere (soprattutto da soli e senza un aiuto professionale) sia tutt’altro che facile, già un ottimo punto di partenza è quello di prenderne atto. Ad esempio, io ho provato a fare delle domande del tipo “A quali problemi pensi di poter andare incontro esagerando con la palestra?” a persone a rischio di sviluppare tali patologie, quali ad esempio i body builder − intesi comunque come individui aventi un rapporto anomalo con l’allenamento, ovvero che si allenano praticamente tutti i giorni, che alzano carichi eccessivi, che assumono steroidi anabolizzanti e così via − allora gli stessi mi hanno fatto notare il fatto che la palestra leva tempo ad altre attività importanti (ad esempio uno di loro mi ha confidato di fare body building principalmente per poter piacere di più alle donne e poter dunque “acchiappare” di più, benchè però la palestra stessa gli togliesse moltissimo tempo che invece potrebbe dedicare proprio a conoscere altre ragazze e ad uscire con loro), oppure che la palestra costa (a riguardo, un body builder professionista, che aveva partecipato anche a competizioni nazionali, mi ha detto che con tutti i soldi che aveva speso per il body building ci avrebbe potuto acquistare anche più di un appartamento fronte mare), oppure ancora che è stancante e che l’allenamento può causare anche infortuni...per poi arrivare a considerazioni che non mi sarei aspettato mai di sentire, sebbene allo stesso modo giuste e sensate: ad esempio un body builder ambientalista mi fece notare che siccome le palestre − soprattutto nelle realtà provinciali − sono ubicate piuttosto in periferia (e quelle più centrali sono generalmente piccolissime e poco idonee a un allenamento completo e variato) e non essendo ovviamente le periferie ben servite dai mezzi pubblici, allora ne consegue che sia necessario servirsi dell’auto o della moto per potercisi recare, con relativo inquinamento ambientale causato dall’utilizzo di tali mezzi di trasporto, unito poi al costo economico del carburante; un mio amico, invece, mi raccontò che la sala attrezzi era responsabile di avergli fatto saltare la festa di addio al celibato di un suo amico a Budapest, poichè siccome l’aria condizionata era impostata per tenere i locali a una temperatura non superiore ai 24° − mentre fuori ve ne facevano 32 − allora in pratica prese l’influenza e dovette di conseguenza rinunziare al viaggio; infine un mio paziente mi fece notare che non rinnovò il suo abbonamento − nè tantomeno quello della sua compagna − alla palestra ove prima si recavano poichè la stessa si era paradossalmente trasformata in ciò che io poi notai essere l’occasione che permetteva ai problemi di coppia repressi di emergere allo scoperto: nello specifico, egli aveva sviluppato una gelosia inerente la possibilità che la compagna trovasse gli altri avventori della sala attrezzi più attraenti di lui, mentre lei − allo stesso modo molto gelosa − faceva pesare il fatto che egli ripetutamente guardasse le ragazze in pants o comunque con la tuta ben attillata, e che le guardasse particolarmente bene proprio allorchè le stesse erano impegnate nell’allenamento dei glutei, con l’aggravante che tale sguardo non fosse un normale sguardo di interessamento, ma fosse invece uno sguardo “da maniaco”, che sottendeva pertanto un interesse di tipo fisico di gran lunga maggiore rispetto a quello che egli stesso provava alla sua vista allorchè entrambi erano impegnati nell’attività sessuale di coppia. Insomma, abbiamo visto che gli effetti collaterali dell’allenamento vi sono e che spesso risultano perfino inimmaginabili. Anche perchè, benchè sia chiaro che l’allenamento eccessivo possa essere esiziale per il proprio fisico, non è sempre ben chiaro quali siano i precisi effetti collaterali che ne conseguono: ad esempio una recente ricerca ha dimostrato come lo sviluppo di una massa muscolare eccessiva, conseguente al body building (eccessivo), abbia come spiacevole risultato la diminuzione della quantità di sperma. Ciò è interpretabile alla luce del fatto che l’ipertrofia muscolare interferisce a livello endocrino con il rilascio degli ormoni sessuali (tra cui il testosterone), che sono invece fondamentali ai fini della corretta spermatogenesi. D’altra parte, dal momento che il nostro corpo è lo stesso dei nostri lontani antenati delle caverne, è plausibile che l’organismo − che appunto è abituato alla vita delle caverne e non a quella attuale − interpreti l’elevato sforzo fisico e la conseguente ipertrofia come attività relate o prodromiche ad altre quali il combattimento o la caccia, e pertanto la spermatogenesi venga parzialmente inibita ai fini della maggiore richiesta di costruzione di una massa fisica potenzialmente utile per lo svolgimento delle attività viste poc’anzi. D’altronde per quale motivo ci sarebbe bisogno di spermatozoi in un periodo in cui invece le priorità sono ben altre? Naturalmente l’organismo non concepisce che l’aumento della massa muscolare serve per un fine del tutto diverso, e cioè quello estetico. Ma l’organismo − inteso come sistema mente-corpo − non può essere ignorato a favore di quello che non è altro che l’ennesimo capriccio che la società però ci presenta come necessità. L’organismo a un certo punto non ce la fa più: collassa e solo allora ci chiede il conto. Un conto ben salato. Forse al desiderio vano di avere un corpo perfetto bisognerebbe anteporre la necessità di possedere il ben più semplice, razionale, buon senso.

ARTICOLO ESTRATTO DA ABRUZZO NEWS, ABRUZZO WEB, ABRUZZO LIVEANANKE NEWS, EKUO, INFORMAZIONE.ITWALL NEWS 24, ABRUZZO POPOLARETM NOTIZIE, TG ROSETO, RADIO AZZURRA, ABRUZZO EVENTS, TUTTIGLIEVENTI.IT, EXPONOIEVENTINAGENDA.IT, ARTERAKU, NOTIZIE LAMPO, VIAGGIATOREWEB, VIVERTEMPO.IT, NONCHÈ DAL PORTALE TURISTICO E DAL SITO ISTITUZIONALE DEL COMUNE DI GIULIANOVA.

A Giulianova Arte e Cultura in Risposta al COVID

 

Giulianova - Appuntamento venerdì 31 alle 21.00 con la musica e la scienza per contrastare le problematiche COVID relate: nell’incantevole e suggestiva cornice di piazza Buozzi − nel cuore del quattrocentesco centro storico giuliese − si svolgerà infatti “Salute con la Musica”, un convegno medico-psicologico e un concerto live nello stesso evento e nella stessa location. Organizzato dal Rotary Club Teramo Est e con il patrocinio istituzionale del Comune di Giulianova, “Salute con la Musica” è uno degli eventi di maggior spessore culturale che compongono il cartellone di manifestazioni estive “Giulia Eventi estate 2020”. Si tratterà infatti dei risvolti medici e psicologici conseguenti alla diffusione del virus COVID-19 e agli effetti che la pandemia ha avuto sulle nostre vite e sulla routine quotidiana di ognuno di noi. “Durante il convegno” − afferma il dottor Eugenio Flajani Galli, psicologo e scrittore giuliese tra i relatori del convegno − “vi sarà anche un interessante excursus sulle conseguenze, inerenti il rapporto con la tecnologia e il digitale, che attraverso la pandemia e il conseguente lockdown hanno interessato una larghissima fascia di popolazione, in particolar modo in età scolare, che rischia ora di sviluppare una vera e propria dipendenza da internet, poichè la riduzione delle varie attività quotidiane praticabili, a cui si è assistito soprattutto durante il lockdown, ha spinto miliardi di persone in tutto il mondo a trovare rifugio nella realtà virtuale e in particolar modo nei social network. Venerdì vedremo dunque quali sono le conseguenze dell’isolamento sociale e come poter acquisire adeguati strumenti teorico-pratici che consentano di poterle contrastare”.

Nella seconda parte della manifestazione verrà poi dato spazio alla musica live e sullo sfondo del duomo di S. Flaviano si esibirà la H Band, gruppo musicale abruzzese composto da professionisti del settore sanitario, nonchè anche musicisti, che si esibiranno fino a tarda serata in un esclusivo concerto dalle sonorità jazz-fusion e soul, sposandosi perfettamente con l’intima e pittoresca cornice di piazza Buozzi. La H Band, capitanata dal dott. Ugo Minuti − cardiochirurgo presidente del Rotary Club Teramo Est, pianista e lead-singer della H Band − include nella formazione anche Roberto Berrettoni (medico anestesista) alla chitarra, Edoardo Puglielli (radiologo interventista) al basso e Patrizio Ciampichetti (operatore socio sanitario) alla batteria, i quali ripercorreranno i brani più famosi dei maggiori gruppi e musicisti jazz-fusion degli ultimi trent’anni, insieme a brani di musica leggera d’autore italiana. La serata, ad ingresso totalmente gratuito in entrambe le parti, sarà condotta da Manuela Cermignani.

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA CERTA STAMPAANANKE NEWS.

Gli Italiani e la “Coronaestate”

É stata un’estate che ci ricorderemo per sempre. Un’estate strana, diversa, molto più spartana e malinconica rispetto alle precedenti. Un’estate che ci ricorda la caducità della vita, il nostro essere “come d’autunno sugli alberi le foglie”, nonostante non ci sia alcuna guerra in atto. Infatti c’è di peggio: una pandemia. Un’emergenza sanitaria scatenata da una forma di vita così elementare − un virus − che per molti ricercatori non può nemmeno essere considerata una forma di vita vera e propria, poichè i virus non sono neanche in grado di riprodursi autonomamente. Eppure siamo di fronte a qualcosa che esula dalle norme umane: se ad esempio una guerra si può prevedere, iniziare e terminare come si vuole (poichè appunto dipende dalle norme umane), una pandemia non si può nè prevedere, nè può cominciare e terminare quando si vuole. E a riguardo la storia ci insegna che le epidemie possono essere anche peggio delle guerre, poichè tante volte le seconde sono finite proprio a causa delle prime. Dunque oggi siamo tutti sotto scacco di un virus nato in Cina che, per effetto della iperglobalizzazione, ha dato vita a una pandemia. Chi si illudeva che dopo essere stati a casa per un paio di mesi a colorare arcobaleni e appendere striscioni si avrebbe avuto un’estate normale, di una rasserenante e scontata normalità come tutte le altre, si illudeva. Ma già è stato tanto che siamo potuti uscire di casa senza autocertificazione e senza troppi vincoli, che le attività commerciali hanno potuto riaprire (ma ovviamente solo quelle che si sono salvate dagli effetti disastrosi che la pandemia ha avuto sull’economia), che qualche manifestazione e qualche evento ben riuscito ci sono stati, ma se già a fine agosto è risalita la curva dei contagi, ciò dimostra che l’estate è stata vissuta con (fin) troppa leggerezza, così tanto plasmata da un’insofferenza e un edonismo tipici della società attuale, che cerca di farci vivere tutti come bambinoni viziati a cui tutto è dovuto. Perchè dire di no a una passeggiata serale sulle strade strapiene del corso, gomito a gomito, se fuori fa fresco? Perchè dire di no a una bella rimpatriata con amici e parenti su una tavolata strapiena mentre si cerca di stringersi ancora di più per entrare tutti nel selfie di rito? Perchè dire di no ai weekend passati − da giugno fino a metà agosto − in discoteche strapiene, con prezzi inflazionati (ma con ospiti dal cachet inferiore rispetto agli altri anni), tanto per bere cocktail annacquati a caro prezzo o per apparire “fighi” laddove si prenda il tavolo e dunque si buttino centinaia e centinaia di euro per bottiglie di Grey Goose, Moët & Chandon, Veuve Clicquot, Dom Pérignon a prezzi anche quintuplicati rispetto al loro reale valore? La società dei bambinoni viziati, a cui tutto è concesso, a cui tutto è dovuto e nessun divieto può essere imposto, nella stagione più edonistica dell’anno, non può certo farsi fermare da un evento come la pandemia, tant’è che in giro se n’è vista sempre tanta di gente, anche troppa. Gente che è uscita per il semplice gusto di uscire, non per chissà cosa. In un’estate con pochi eventi in circolazione, le occasioni per uscire e per alleggerire il portafoglio sono state limitate, monotone, ripetitive, ma allo stesso modo gettonatissime. Routine di uscita tipiche sono state il format “cena + caffettino o liquorino al bar + gelatino o yogurtino tanto per concludere in grande la seratona” o “aperitivo o pizzetta in centro + giro per i mercatini + sosta al luna park al fine di placare le lagnanze dei pargoli”. Non che sia vietato uscire e, obiettivamente, è assurdo poter pensare che dopo mesi di lockdown si possa passare anche l’estate dentro casa, ma ha senso la necessità di uscire sempre e comunque, ogni pomeriggio, ogni sera, e dover necessariamente incontrare tutti i parenti, tutti gli amici, tutti i colleghi, eccetera, eccetera, come se fosse un anno pari a quelli passati? Per poi fare cosa, nello specifico? Godere dell’attenzione e della compagnia di altre persone con cui poter chiacchierare del più e del meno, di cose di attualità come...il coronavirus? Un virus di cui sicuramente si parlerà ancora a lungo se permane tanta gente che crea assembramenti per ragioni futili, senza considerare che gli eventi − anche di qualità e con artisti di livello − ci sono anche stati questa estate, pure in Abruzzo. Eventi a cui si accedeva previa prenotazione e registrazione e con posti distanziati. Dunque l’alternativa allo stare dentro casa c’è stata eccome, ma il governo non ha fatto i conti con la massa di persone − in particolar modo giovanissimi − i quali, annoiati da mesi e mesi di nullafacenza a causa anche della chiusura delle scuole, hanno deciso di uscire ogni sera a creare assembramenti a ogni ora e in ogni luogo: locali, spiagge, parchi, strade, piazze...persino in acqua. Verrebbe da chiedersi se questa ricerca ossessiva del gruppo possa dipendere da un’assenza di valore a livello individuale, che pertanto porta i teenagers di oggi a dover stare sempre in gruppo al fine di valere di più per una semplice somma aritmetica di presenze. Ma, in tutto ciò, il governo cosa ha fatto a riguardo? É stato a guardare. Ha tollerato assembramenti in ogni dove affidandosi al puro e semplice senso civico di persone che, sia per ragioni di età, sia per ragioni di mancata istruzione (dato che è da marzo che le scuole sono chiuse), questo senso civico non l’hanno ancora acquisito. I luoghi più prototipici ove si può assistere ad assembramenti di giovani − le discoteche − sono state chiuse solo dopo Ferragosto, dunque agli sgoccioli della stagione estiva. Praticamente, con il maltempo che si è verificato questa estate a giugno e luglio, si può dire che il meteo abbia fatto saltare più serate in discoteca di quante ne abbia fatte saltare il governo! E il sindacato delle discoteche − SILB-Fipe − invece di ringraziare la divina provvidenza per aver potuto fare serate per quasi tutta l’estate, ha preso questa chiusura forzata di meno di un mese come un accanimento nei confronti di una corporazione, sfociando nel solito vittimismo di facciata. Ma forse hanno anche ragione i gestori delle discoteche a sostenere che il governo non le conosce bene: infatti il governo delle Baleari − che al contrario le conosce benissimo dato che lì risiedono le discoteche più famose al mondo − ha proprio deciso che le discoteche non dovessero aprire questa estate, poichè è ragionevolmente impossibile poter pretendere il rispetto di regole da gente che va a fare serata tanto per ubriacarsi, drogarsi e poi mettersi alla guida in questo stato (ovviamente non tutti, ma buona parte sì), ovvero è assurdo poter pensare che persone che già assumono comportamenti così pericolosi per la salute e l’incolumità propria e degli altri possano poi preoccuparsi del coronavirus, che oltretutto è molto meno pericoloso dell’abuso di sostanze psicotrope e di tutte le condotte che ne conseguono. E le discoteche di Ibiza come hanno reagito? Nel modo opposto rispetto alle ben meno note “cugine” italiane: prendendo tale norma come un provvedimento pesante ma necessario, e che pertanto va accettato. Ad esempio l’Ushuaïa, una tra le discoteche più famose al mondo, nel comunicato con cui faceva presente la chiusura per questa stagione, ha sottolineato il fatto che fosse una decisione drastica ma allo stesso tempo necessaria, poichè era l’unica ragionevolmente possibile. In Italia invece cosa è successo? Qualsiasi locale ha potuto organizzare qualsiasi serata possibile e immaginabile, con inevitabile rischio di assembramenti e conseguente impennata di contagi, che ora stanno tornando a superare il migliaio al dì. E le famiglie dove sono? Sanno cosa fanno i loro figli? Ma più che altro, i genitori di oggi − magari per evitare di avere sensi di colpa − tendono spesso a giustificare i figli con discorsi del genere “sono ragazzi, è ovvio che si vogliono divertire”, “siamo stati tutti giovani una volta”.... E sicuramente siamo tutti stati giovani una volta, ma le generazioni precedenti non erano così. Almeno erano generazioni che un minimo di responsabilità l’avevano, dei sogni li avevano. Non vivevano nel “qui ed ora” delle storie e degli stati che dopo un giorno svaniscono effimeramente, non vivevano schiavi dei mass media e di sedicenti influencer, non vivevano con l’idea che l’apparenza fosse tutto. Un giovane di un’altra generazione (ad esempio, in linea di massima, vissuto negli anni ’70, così come negli anni ’80, ’90 e ’00) si sarebbe forse pure messo a rischio per poter uscire e partecipare a qualche evento a cui veramente tiene, ad esempio il concerto della sua vita del suo gruppo preferito...ma invece i giovani di oggi per quale motivo escono? Per quale motivo si mettono a rischio? Cosa c’è nell’altro piatto della bilancia? Il nulla, il nulla più assoluto. E non potrebbe essere altrimenti, poichè questa estate ha visto la cancellazione delle performance di quasi tutti gli artisti di fama internazionale che si sarebbero dovuti esibire nelle nostre città (Billie Eilish a Milano, i Red Hot Chili Peppers a Firenze, Kendrick Lamar a Roma, Lana Del Rey a Verona...); ciononostante i grandi eventi sono stati rimpiazzati da uscite balorde i cui fatti di cronaca recente ne sono la prova: giovani che si ubriacano, si drogano, fanno schiamazzi e assembramenti ovunque, causano risse, atti vandalici e via dicendo. In tutto ciò sorge spontanea una domanda: come sarebbe stata questa estate senza coronavirus? Sicuramente meglio, ma sarebbe stata, appunto, la solita estate come tante, con quella solita normalità e la solita spensieratezza di tanto in tanto interrotta da qualche problema, ma di sicuro inferiore rispetto a quello della pandemia. Ma si può pretendere che la normalità duri per sempre e vada avanti così ogni anno? Gli imprevisti rientrano in quella che è la vita e, se si vuole vivere, si devono anche accettare.

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWS.

Nella Mente di chi le Menti le Manipola: chi sono i Manipolatori e come si Riconoscono? - parte 1

Sia la mia vita personale sia quella professionale mi hanno offerto svariati esempi di “amori sbagliati”. Sbagliati per tante ragioni, ma molto spesso riconducibili alla prepotenza e all’egoismo di almeno uno dei due componenti la coppia. Diretta conseguenza di prepotenza ed egoismo è appunto la personalità manipolatrice, ovvero − come è intuibile − la volontà di una persona di modificare l’altra a proprio piacimento al fine di ottenere dei vantaggi personali. Ma che tipo di persona è un manipolatore? In questo articolo, suddiviso in due parti o puntate (una pubblicata ora, una tra qualche giorno), vedremo due esempi esemplari di persone manipolatrici, nonchè, cosa molto importante, quali possono essere i mezzi a disposizione al fine di poter individuare un individuo manipolatore e dunque estrometterlo dalla propria vita. Tali esempi sono il frutto del mio utilizzo di Tinder, così come di altri siti ed app di incontri online, che al giorno d’oggi − in equilibrio instabile tra lockdown e normalità − si rivelano essere molto utili al fine di conoscere altri single, supplendo così all’odierna mancanza di contesti di socializzazione quali serate, feste, festival, tavolate nei ristoranti, consumazioni in piedi al bar...che via via stanno scomparendo in nome del distanziamento sociale. In tal modo, fortunatamente, la rete ci dà la possibilità di essere connessi − non soltanto a internet, ma anche ad altri esseri umani − ponendo così rimedio al distanziamento sociale e alla conseguente alienazione dei rapporti umani che si sta creando nella società di oggi. Chi volesse approfondire tali utilissime potenzialità della rete può anche leggere il mio libro “#Seducisocial - la guida completa a siti e app di incontri”. Dunque, come prima accennato, ho conosciuto queste due donne su Tinder, ove detengo un profilo completo, in cui specifico di essere interessato a conoscere una donna seria, intelligente, con dei valori e di cui potermi innamorare e costruire così qualcosa di serio. Ho conosciuto così molte donne, ma in particolar modo, purtoppo, anche due che si sono rivelate essere delle manipolatrici, entrambe conosciute tra giugno e luglio di quest’anno. La seguente storia si riferisce alla prima delle due.

  

ANGELA

 

30 anni, carnagione chiara, capelli biondi, occhi azzurri e occhiali da intellettuale. Di mestiere mi dice di fare l’aiuto commercialista in uno studio contabile. Dopo esserci conosciuti su Tinder, decidiamo di scambiarci i contatti social e di chattare un po’ su Whatsapp al fine di conoscerci meglio. Lei mi fa sempre molti complimenti e mi confida anche il fatto di non essere mai stata fidanzata, bensì di aver avuto solo delle frequentazioni più o meno lunghe con altri uomini, in quanto si ritiene molto esigente e desidera trovare “un vero uomo, il mio principe azzurro che mi faccia battere il cuore e sorridere ogni giorno di più”, il tutto condito dalle solite emoji di circostanza. Un giorno le propongo di uscire e passare una serata fuori in un ristorante, invito che lei accetta di buon grado, ringraziandomi pure per il pensiero. Una volta arrivata risulta sempre essere molto gentile e cordiale, mettendo anche in chiaro il fatto che la cena se la vuole pagare da sè in quanto a suo dire non è in cerca di un uomo il quale la mantenga, bensì che si preoccupi di lei e che le stia accanto. Dopo aver conversato del più e del meno, decidiamo di farci una passeggiata, al che lei inizia a farmi domande sempre più invadenti su di me, chiedendomi anche cose piuttosto fuori luogo in occasione di un primo appuntamento; dopo qualche altro metro di passeggiata mi chiede di fermarci su una panchina, e lì continua la sua conversazione iniziandomi a raccontare quella che sembra essere una vera e propria soap opera, ovvero la storia strappalacrime della sua vita: la sorella morta di leucemia, il padre malato, i conflitti in famiglia, la sua vocazione da crocerossina, il fatto che essendo una ragazza diversa dalle altre e di sani principi non è potuta mai andare d’accordo con gli uomini dei nostri tempi, che al contrario cercano quelle più facili e con la testa per aria, il suo percorso terapeutico con uno psicologo che in passato l’aveva aiutata.... A quel punto non posso non pensare che Angela potrebbe aver cercato una frequentazione con me di modo che io la aiutassi, professionalmente, a risolvere i suoi problemi e a farla vivere meglio; di conseguenza metto le mani avanti facendole presente che per me non è possibile − per ragioni di etica professionale − occuparmi professionalmente di una donna con cui mi sto frequentando. Lei però mi risponde dicendomi che in realtà vuole solo essere compresa e...amata. E così scatta anche il bacio tra di noi. In ogni caso, questa ragazza ancora non mi convince: sarà vera questa storia della sua vita? E perchè me la racconta? Vorrà dei soldi? Forse questo no, poichè non me li ha mai chiesti e anzi ha anche voluto mettere in chiaro che lei lavora e vuole pagare per sè, tant’è che effettivamente la cena se l’è pagata per conto suo. Però una cosa proprio la vuole: mi comunica infatti che è da tanto che non ha rapporti con un uomo − complice anche il lockdown − e perciò vorrebbe tanto averli con uno come me, che si è rivelato in grado di capirla, ascoltarla, farle passare una serata spensierata come non accadeva da tempo, eccetera. Mi dice che quindi vuole andare nella mia auto e farlo lì. E la serata si conclude proprio in questo modo, poichè a una certa ora (l’una passata) mi comunica che è tardi e dunque poco dopo averlo fatto vuole tornare a casa. Ma non erano gli uomini quelli che dopo averlo fatto non hanno voglia di stare insieme, di parlare, fare le coccole e dunque se ne vanno lasciando lei in solitudine? In ogni caso nei seguenti giorni continuiamo a chattare del più e del meno, fino a che lei non mi comunica che ha bisogno di parlarmi. Mi fissa dunque un appuntamento telefonico, alle 7 di sera in punto, dicendomi dunque tutta una serie di cose che mi fanno capire che Angela non è tanto un angelo come poteva sembrare. Innanzitutto comincia con il dire che per lei va bene fare una storia con me e dunque che vorrebbe continuare ciò che avevamo iniziato, ma dopo questa breve premessa inizia un discorso degno di una tragedia di Euripide. In sintesi, mi comunica di sentirsi frustrata, stressata e inerme rispetto alla sua situazione familiare: in particolar modo dice che non va d’accordo con la madre, costantemente depressa, che il padre è come una palla al piede, poichè nonostante sia vecchio e malato lei non riesce più a fargli da crocerossina; tra l’altro lui è spesso di cattivo umore e se la prende anche con lei e sua madre, lasciando presagire che ci sia una violenza non solo psicologica. Insomma, tutti giri di parole che si concludono con l’ammissione di volersene andare di casa − cosa che però non le è possibile fare da sola in quanto non guadagnerebbe abbastanza per poter pagare l’affitto e le utenze − e dunque con la richiesta di...andare a convivere. Io le rispondo che ovviamente pure a me farebbe piacere una convivenza, tant’è che come anche ho fatto presente sin dall’inizio, sono deciso ad avere una relazione stabile. Il problema, però, è che a quel punto lei inizia a parlare come se la convivenza dovesse verificarsi a breve, molto a breve, nonostante fossimo usciti insieme una volta soltanto. Ai miei dubbi riguardo al fatto che la cosa possa funzionare, e alla mia successiva richiesta di continuare a frequentarci senza prima convivere al fine di conoscerci meglio, come d’altronde farebbe qualsiasi persona normale, mi risponde come un fiume in piena, dicendomi tutta una serie di cose più o meno assurde, più o meno minacciose, più o meno deliranti. Tanto per citarne alcune, mi dice che lei è una bellissima ragazza e qualunque uomo risponderebbe di sì a una richiesta di convivenza da parte sua, che io non posso essere un bravo psicologo perchè non mi rendo conto di quanto lei possa soffrire in quel suo stato, che qualora dovesse decidere di fare qualche gesto inconsulto, io ce l’avrò sempre sulla coscienza, che lei poteva pure farsi venire a prendere sotto casa da me, farsi pagare le cene, farsi fare dei regali da parte mia, ma ha deciso di non farlo per non pesare su di me, ed ecco come io la ripago per questa sua disponibilità nei miei confronti...arriva anche a dire che un’altra ragazza si sarebbe fatta pure pagare per avere un rapporto con lei, mentre lei non l’ha fatto, e che comunque avrebbe potuto senza ombra di dubbio ricattarmi (dicendomi cose del tipo “se non mi paghi, dico che sono stata violentata” e così via) mentre lei ancora non l’ha fatto. A quel punto cerco quanto meno di farla ragionare e farle capire cosa voglia dire la convivenza, cosa che d’altra parte lei non dovrebbe nemmeno conoscere in prima persona se è vero che non è mai stata fidanzata: le dico che anche se dovessimo andare a convivere, è però prima indispensabile che si conoscano le rispettive famiglie, soprattutto io la sua, dato che mi pare sia ovvio che dei genitori vogliano sapere con chi va a convivere la loro unica figlia. Lei però mi risponde con un secco e gelido “No!”, dicendomi che ciò avrebbe soltanto complicato le cose, che tanto ai suoi non va mai bene nessuno, eccetera, eccetera. Non mi rimane altro da fare che dirle, in tono gentile ma deciso, che “al momento non me la sento di andare a convivere, ma se volessimo...” e poi non le ho più potuto dire nulla poichè già aveva riattacato. Allibito, dopo un po’ che riaccendo la connessione del telefono scopro che mi ha bloccato su Whatsapp e anche su Facebook e Instagram. Ma alla fine meglio così. Ancora non potevo immaginare che qualche settimana dopo mi sarebbe potuta capitare una storia simile a questa, ma molto, molto più pazzesca. La leggerete nella seconda parte dell’articolo.

Ora, cosa si può imparare da tale lezione? In altre parole, qual’è il morale della favola? Questa storia insegna moltissime cose sulle persone manipolatrici e il loro modo di fare, di seguito riassunte in 7 punti:

1) Cercano l’accettazione degli altri in tutti i modi e quanto prima possibile. Essere accettati dagli altri è sicuramente una bella cosa, ma si deve pur sempre considerare che il mondo è bello perchè è vario e dunque ogni persona ha diritto di essere se stessa, senza dover per forza piacere agli altri, a tutti gli altri, e senza dunque avere la necessità di farsi accettare dal prossimo a tutti i costi. Una persona manipolatrice cerca proprio di farsi amico il prossimo al fine di poterlo manipolare meglio. In questa storia si può constatare come Angela mi facesse tanti complimenti sospetti già dall’inizio, senza avermi prima conosciuto abbastanza, proprio al fine di ottenere la mia benevolenza nei suoi confronti.

2) Fanno favori a prima vista disinteressati, ma che poi risultano essere interessati. Alle parole seguono i fatti: dopo i complimenti ci sono le condotte finalizzate a farsi accettare e ben volere. Tali condotte sembrano dapprima disinteressate, ma poi si scopre che sono interessate, e dunque si pagano a un prezzo molto salato. Da notare, infatti, come lei dapprima si paghi da sè la cena e voglia anche avere un rapporto, per poi − a tempo debito − far pesare queste cose e utilizzarle come argomenti per poter essere assecondata. D’altra parte un manipolatore sa benissimo che qualora si faccia un favore a una persona, quest’ultima possa poi essere più incline ad accettare le sue pretese.

3) Agiscono secondo un copione. Una persona manipolatrice è tendenzialmente falsa, dunque non avrebbe problemi ad agire secondo un copione, come ad esempio può essere porsi in modo gentile, fare complimenti ad effetto, recitare la parte della povera ragazza sfortunata che non ha ancora trovato il suo principe azzurro e così via. Ciò accade anche a causa del fatto che, fortunatamente, non tutte le persone si fanno manipolare, dunque un manipolatore può avere un’esperienza anche molto lunga di tentativi di plagio e manipolazione con altre persone, ragion per cui a quel punto il suo modo di fare diventa per l’appunto un vero e propio copione da ripetere qualora si presenti una nuova vittima.

4) Sono bugiarde o comunque poco oggettive. Abbiamo visto che per una persona manipolatrice è fondamentale farsi ben volere dagli altri e dare un’immagine il più possibile positiva di sè. Di conseguenza, per poter ottenere ciò, è necessario mentire. Magari Angela, se mi avesse detto di aver avuto tanti uomini prima di me − cosa che non posso sapere, ma comunque mi pare molto strano che una ragazza di 30 anni, attraente, con un lavoro e nessun problema di salute palese (se non magari di tipo mentale) non abbia mai avuto una storia sentimentale − avrebbe poi temuto che la potessi giudicare male. Allo stesso modo, tante altre cose su di sè mi sono sembrate potenzialmente inventate.

5) Non si fanno scrupoli se vogliono ottenere ciò che vogliono. Essere individui manipolatori richiede un importante sforzo cognitivo: in altre parole, non è facile riuscire ad esserlo, ed ecco perchè la maggior parte dei manipolatori sono persone con sufficiente volontà e decisione. E proprio perchè fare i manipolatori richiede impegno, allora hanno intenzione di andare fino in fondo a tal cosa. Vogliono, insomma, ottenere ciò per cui si sono dati da fare. Stando così le cose, non stupisce tanto il fatto che possano arrivare fino a minacciare la vittima o a stalkerizzarla: ne sono un esempio le velate − ma nemmeno tanto − minacce di Angela che mi fece al telefono, tra cui la possibilità che si suicidasse, che avrebbe potuto pure denunziarmi per violenza sessuale, eccetera.

6) Parlano tanto e non condividono il punto di vista altrui. Manipolare una persona vuol dire agire sulla sua mente, di conseguenza la via maestra per poter influenzare l’altro è di certo quella di parlarle. Angela è infatti una gran chiacchierona, a cui però va di parlare solo di ciò che le interessa, ignorando qualsiasi cosa non sia di suo gradimento. D’altra parte, se l’obiettivo di un manipolatore è quello di far cambiare idee a un’altra persona, di influenzarla, perchè mai dovrebbe accettare il punto di vista dell’altro?

7) Fanno nascere tanti interrogativi nei loro confronti. Infine una buona notizia: se una persona manipolatrice non è facile da riconoscere, è però probabile che faccia nascere degli interrogativi su di sè, poichè questo tipo di individui quasi sempre esula dalla media della normalità delle altre persone di una data società. In altre parole, se è difficile capire se una persona è manipolatrice o meno, non è però allo stesso modo difficile capire che il suo comportamento, quanto meno, risulti essere particolare. Ad esempio, è certamente una particolarità che una bella ragazza single si dimostri così disponibile, non faccia per nulla la stronza e voglia addirittura pagarsi da sè la cena e avere un rapporto senza pretendere nulla in cambio. Ovviamente non tutti i comportamenti “strani” sono da considerare dei campanelli d’allarme, ma non bisogna neanche peccare di eccessivo ottimismo, pensando da subito di aver trovato la propria anima gemella qualora tutto proceda come noi vogliamo.

In conclusione, non so e non saprò mai se quello che mi ha detto questa ragazza sia vero o meno, se veramente avesse tale necessità di fuggire dalla sua famiglia disfunzionale per andare tra le braccia di una persona che volesse amare, oppure se tutta questa storia fosse solo una invenzione, una messa in scena per coprire qualcosa di più prosaico: ad esempio il cercare di fuggire da un ex violento, oppure il dovermi utilizzare in qualche altro modo. Se persone di tal genere fanno nascere nella nostra mente tanti interrogativi, non è però il caso di perdere tempo a cercare delle eventuali risposte. Se infatti si dovesse cercare di trovare una risposta a tutti i dubbi che possiamo avere nei riguardi di una data persona, non faremmo altro che assegnarle importanza e, di conseguenza, anche un certo interesse. Bisogna imparare che l’incertezza va accettata. Perchè la vita stessa è incertezza e la verità non è sempre ciò che sembra.

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWS.

Nella Mente di chi le Menti le Manipola: chi sono i Manipolatori e come si Riconoscono? - parte 2

Sia la mia vita personale sia quella professionale mi hanno offerto svariati esempi di “amori sbagliati”. Sbagliati per tante ragioni, ma molto spesso riconducibili alla prepotenza e all’egoismo di almeno uno dei due componenti la coppia. Diretta conseguenza di prepotenza ed egoismo è appunto la personalità manipolatrice, ovvero − come è intuibile − la volontà di una persona di modificare l’altra a proprio piacimento al fine di ottenere dei vantaggi personali. Ma che tipo di persona è un manipolatore? In questo articolo, suddiviso in due parti o puntate (una pubblicata qui, una a questo link), è mio obiettivo passare in rassegna due esempi esemplari di persone manipolatrici, nonchè, cosa molto importante, illustrare quali possono essere i mezzi a disposizione al fine di poter individuare un individuo manipolatore e dunque estrometterlo dalla propria vita. Tali esempi sono il frutto del mio utilizzo di Tinder, così come di altri siti ed app di incontri online, che al giorno d’oggi − in equilibrio instabile tra lockdown e normalità − si rivelano essere molto utili al fine di conoscere altri single, supplendo così all’odierna mancanza di contesti di socializzazione quali serate, feste, festival, tavolate nei ristoranti, consumazioni in piedi al bar...che via via stanno scomparendo in nome del distanziamento sociale. In tal modo, fortunatamente, la rete ci dà la possibilità di essere connessi − non soltanto a internet, ma anche ad altri esseri umani − ponendo così rimedio al distanziamento sociale e alla conseguente alienazione dei rapporti umani che si sta creando nella società di oggi. Chi volesse approfondire tali utilissime potenzialità della rete può anche leggere il mio libro “#Seducisocial - la guida completa a siti e app di incontri”. Dunque, come prima accennato, ho conosciuto queste due donne su Tinder, ove detengo un profilo completo, in cui specifico di essere interessato a conoscere una donna seria, intelligente, con dei valori e di cui potermi innamorare e costruire così qualcosa di serio. Ho conosciuto così molte donne, ma in particolar modo, purtoppo, anche due che si sono rivelate essere delle manipolatrici, entrambe conosciute tra giugno e luglio di quest’anno. La seguente storia si riferisce alla seconda delle due.


VERONICA

 

28 anni, carnagione chiara, capelli biondi tinti, occhi castani e qualche tatuaggio qua e là tanto per postare qualcosa su Instagram. Di mestiere cosplayer a tempo perso, nonchè beneficiaria di reddito di cittadinanza.

Inizialmente tutto si è svolto in modo molto simile a quanto avvenuto con la donna di cui vi ho scritto nello scorso articolo. Le solite cose scritte in chat, tanto per iniziare a conoscersi. Usciamo una sera, ci troviamo bene e quindi ci baciamo (mi dilungo poco su questa prima parte per poi lasciare più spazio alla seconda, di sicuro più interessante). Nei giorni seguenti continuiamo ovviamente a chattare e a sentirci anche al telefono, con lei che a un certo punto mi confessa che non ce la fa più a trattenersi dal non farlo, dato che già non ha fatto nulla per tutti i mesi del lockdown, ragion per cui avrebbe scelto proprio me come primo uomo a cui concedersi dopo la quarantena (il tutto detto però in toni epici a metà tra La Gerusalemme Liberata e un film di Martin Scorsese). A quel punto le dico che per me non ci sono problemi, ma non ce ne sarebbero nemmeno qualora dovessimo aspettare un altro poco, dunque le faccio presente che si tratta di una decisione che spetta a lei. Quest’ultima mi incalza dicendomi che tra poco saremo arrivati a fine mese e dunque avrebbe volontà di farlo a breve, pena l’infausto arrivo del ciclo con la fine di giugno. E cosa si può controbattere a una donna quando tira fuori l’argomento ciclo?! Lei inoltre mi spiega che dà molta importanza al fatto che il tutto venga fatto bene, e che è imprescindibile farlo in casa, poichè in auto è poco igienico e non è possibile farsi la doccia (altro che quella zozzona di Angela!), per cui chiede di venire a casa mia per poterlo fare. A me sembra più una scusa per curiosare, ma acconsento lo stesso. Quella sera uscimmo prima per un apericena e poi dunque andammo a casa mia. Il giorno dopo mi disse che voleva restare: a quel punto le chiesi se per caso volesse andare al mare, ma lei mi rispose che faceva troppo caldo per andarci, dunque preferiva rimanere a casa poichè “c’è l’aria condizionata”. E qui inizia la fatidica seconda parte della narrazione, con lei che − apparentemente riaddormetatasi − a un certo punto si gira verso di me e comincia un lungo monologo. Riassumendo, mi dice che per lei va bene fare una storia con me, a patto però che io cambiassi alcune cose di me stesso. Ma per “alcune cose” ne intendeva una decina circa, tra cui il fatto che fossi una persona troppo precisa, e che le persone precise sono spesso noiose, che non accetta il fatto che io pianifichi spesso le cose da fare e che organizzi la mia vita, poichè “qualsiasi cosa si organizza va male”, che fossi una persona troppo incline alle regole, che non le piacevano i miei amici (che tra l’altro non aveva nemmeno conosciuto se non limitandosi a visionarne i relativi profili social), che non le piaceva che bevessi (e l’unica volta che mi aveva visto bere è stato quando, a fine cena, ho deciso niente di meno che prendere un mojito alla fragola, noto cocktail dal tasso alcolico ovviamente superiore a centerba, latte di suocera e tintura imperiale messi insieme), nè le mie località di vacanza in quanto, ad esempio, “a Ibiza nelle discoteche ci stanno le sgualdrine da 4 soldi che vanno con tutti quelli che incontrano perchè ubriache e drogate e anche puttane!”. E infine non andava nemmeno bene la musica che ascoltavo (forse perchè suonata anche a Ibiza, dunque in locali ove le sgualdrine da 4 soldi si ubriacano, drogano e vanno con qualsiasi essere vivente capiti a portata di tiro, da dj che prendono pure 300000 € a serata?). Dopo aver lasciato parlare la pubblica accusa, cerco quantomeno di difendermi in giudizio e le faccio notare che potesse essere un tantino assur...ehm, avventato, sentenziare così su cose e persone di cui lei non avesse neanche una esperienza diretta (ad esempio ella non era mai stata ad Ibiza, ma mi disse che era più che certa di ciò che diceva a riguardo dell’isola poichè così raccontatole da un’amica di un’amica durante una festa di addio al nubilato). Aggiungo anche che lei non mi conosce ancora a sufficienza e pertanto sta facendo l’errore di rimproverarmi alcune caratteristiche − tra l’altro solitamente giudicate in modo positivo o neutro, ma che ella considerava invece negativamente − che forse nemmeno avrei ai livelli da lei esposti o che comunque sono viste da un punto di vista distorto ed esagerato. Tutto fiato sprecato: lei non vuole sentire niente. O meglio, sì, qualcosa effettivamente vuole sentire: Uomini e Donne. “Non me ne perdo una puntata! Ora misà che è già cominciato...ma dove sta il telecomando?!?”. A quel punto penso che quantomeno sarà troppo impegnata nella visione di Uomini e Donne per poter andare avanti con i suoi discorsi, ma tale illusuione dura solo per pochi minuti, perchè a breve ricomincerà con un’altra tiritera: “Vedi che lui [il tronista di quella puntata] pure vuole fare l’egoista? Perchè gli uomini sono un po’ tutti egoisti verso le donne e non si rendono conto che le fanno del male”, eccetera, eccetera. Insomma, mi è sembrata così fan di Uomini e Donne al punto da volerlo replicare live con me e lei al cospetto della trasmissione. Ed effettivamente, tra Veronica, Maria De Filippi, Tina Cipollari, tronisti e corteggiatrici varie, in una cacofonia di voci, urli e versi eterogenei, al punto da far riconsiderare i più caotici mercati rionali del Mezzogiorno, mi sono sentito come non mai calato dentro Uomini e Donne. Ritengo dunque che sia il caso di farle capire che il tronista e la corteggiatrice sono quelli in TV, non noi, e dunque che sarebbe evitabile una polemica di questo genere [...]. Per farla breve, lei comincia ad apparirmi quale l’esatto contrario della ragazza “tenera e sognante” come si era descritta in chat, ma per fortuna il tempo da passare insieme sta per volgere al termine: lei mi chiede se per caso volessi rimanere un altro po’ insieme a lei − passando dunque un’altra serata e un’altra notte in sua compagnia − oppure se ci dovessimo vedere un’altra volta. Le rispondo che la seconda ipotesi si configura come la migliore, poichè in tal modo potrò anche riflettere su ciò che mi ha appena detto. “Sì, è vero. Riflettici bene!” mi avverte, e infatti su ciò che mi ha detto ho riflettuto (fin troppo) bene, al punto da non riuscire nemmeno a prendere sonno all’idea che anche questa ragazza fosse una manipolatrice. L’indomani avrò quella che praticamente sarà la conferma: mi scrive in modo molto rigido facendomi presente che la prossima volta che ci saremmo visti avrei già dovuto cambiare qualcosa di me, altrimenti non se ne sarebbe fatto nulla. Per pura deformazione professionale, cerco almeno di farla un po’ ragionare: ad esempio le comunico che lei mi aveva elencato una lunga lista di aspetti della mia vita che io avrei dovuto cambiare...senza però accettare che magari anche io volessi che lei, da parte sua, iniziasse a cambiare alcuni aspetti di sè che potrebbero non piacermi. Ma Veronica non ne vuole sapere niente, e anzi rincara la dose scrivendomi che qualora io non volessi cambiare qualcosa per lei, di conseguenza troverebbe la conferma che io non ci tengo alla sua persona, e pertanto si sentirebbe in tal caso libera da qualsiasi vincolo sentimentale, potendo dunque frequentare anche altri uomini, a maggior ragione dal momento che, almeno a suo dire, ne avrebbe così tanti che la cercano al punto da doverli pure scacciare, e con tali uomini − a prescindere dalla loro bellezza interiore ed esteriore − sarebbe decisa a concedersi anche molto di più di quanto ha fatto con me. Dopo aver letto cose di questo genere, non posso che concludere il dialogo − se così si può definire − invitandola a fare ciò che più ritiene necessario e facendole altresì notare che a quel punto tra lei e le “sgualdrine da 4 soldi che [nelle discoteche di Ibiza] vanno con tutti quelli che incontrano perchè ubriache e drogate e anche puttane” non ci sarebbe alcuna differenza, se non che queste ultime, una volta concluso il rapporto, se ne tornano nei loro hotel o appartamenti senza infelicitare nessuno. Qualche secondo dopo l’invio di questo messaggio vengo bloccato alla velocità della luce sia su Whatsapp sia su Facebook e Instagram. Ma meglio così, poichè in tal modo non devo perdere altro tempo a bloccarla io. Che di tempo ne ho già perso abbastanza.

Passate oltre due settimane da tale vicenda, un pomeriggio ricevo però una chiamata: era lei, ma non l’avevo capito poichè in quel momento mi trovavo al mare e di conseguenza il sole mi impediva di visualizzare bene lo schermo. All’apparenza sembra essere tornata dolce come prima: mi dice che forse ha sbagliato a comportarsi come si è comportata, ma ciò dipende dal suo essere impulsiva, che non voleva farmi del male e che in realtà mi voleva ancora bene, che intanto aveva conosciuto un altro uomo con cui però non era andata bene la storia poichè era “il solito eterno Peter Pan che a 35 anni ancora non ha messo la testa a posto” e blablabla. La conclusione? Vuole rivedermi. Veronica, tuttavia, è ignara del fatto che qualche giorno prima mi è capitato − scherzo del destino − di incontrare una mia amica a un mercatino estivo. “Eugenio! Allora, ti sei fidanzato!?” mi chiese Francesca appena mi vide, al che caddi decisamente dalle nuvole: “Sinceramente non sapevo di essere fidanzato” le risposi. “Ma come?! E le storie??”. Le storie a cui si riferiva erano delle foto che ci eravamo fatti io e Veronica insieme, e che poi avevo dunque caricato su Facebook e Instagram, ragion per cui ella riteneva erroneamente che fossimo fidanzati. Le spiegai dunque che la ragazza in questione non è la mia compagna, ma lei mi rispose che in realtà, a prescindere dal fatto che stessimo insieme o meno, mi voleva comunque parlare di quella ragazza dal momento che lei la conosceva, almeno di nome. Ci sedemmo su una panchina all’ombra al fine di parlare e lei iniziò il discorso chiedendomi: “Tu la conosci bene?”. Proprio una bella domanda. Le risposi che ritenevo di conoscerla abbastanza bene, ma che se lei sapesse qualcosa su di lei me lo poteva tranquillamente riferire. Ella mi spiegò che Veronica era stata prima con un certo Andrea, l’ex di Elena, la sua migliore amica. Elena si dovrà sposare con Andrea l’anno prossimo − COVID permettendo − ma due anni fa avevano litigato di brutto e dunque per diversi mesi si erano lasciati: lei aveva preferito stare da sola, ma lui invece ha deciso di conoscere altre donne, tra cui proprio Veronica, con cui è stato qualche mese. “I mesi più brutti della sua vita!” esclamò Francesca: infatti questa ragazza aveva posto in essere un comportamento molto manipolatore nei confronti di Andrea − che a dire di Francesca era invece abituato a una donna molto meno problematica come appunto Elena, e dunque era stato preso alla sprovvista da una manipolatrice come Veronica − e, in poche parole, gli aveva reso la vita un inferno. Da principio, faceva finta di essere interessata a lui e a tutto ciò che componesse la sua vita, per poi però farlo parlare e carpire dunque informazioni a riguardo, da utilizzare a tempo debito contro di lui. Ad esempio, una volta che Andrea aveva litigato con il suo migliore amico e pertanto si stava sfogando con Veronica in chat descrivendole come lui si fosse comportato da stronzo nei suoi confronti, lei fece lo screenshot della chat e a tempo debito la inviò all’amico − con il quale intanto Andrea aveva fatto pace − per farli litigare di nuovo. Tutto ciò poichè si sentiva trascurata da Andrea, il quale, a suo dire, passava più tempo con gli amici che con lei. “Conoscendo la signorina in questione, posso ben capire perchè lui preferisse uscire con gli amici” commentai io. Poi mi riferì, tra le varie cose, che lei aveva anche conosciuto i genitori di lui, cercando soprattutto di farsi ben volere dalla madre. Per poi metterla contro il figlio. Infatti Veronica era convinta che Andrea, oltre a passare troppo tempo con gli amici, ne passasse troppo con la madre, la quale a suo dire lo influenzava e rischiava di farlo rimanere un ragazzino. Ovviamente Veronica non poteva mica tollerare questo fatto: è ovvio che debba avere lei l’esclusiva di influenzare le persone. Per cui, sapendo che di tanto in tanto Andrea giocava la schedina e qulche volta addirittura a poker con gli amici, descrisse alla madre tali sue abitudini quasi come se il figlio fosse un ludopatico che si giocava tutto lo stipendio, finendo perfino col farla piangere. Ma non è finita qui. Siccome Andrea, dopo queste vicende terrificanti, aveva iniziato a soppesare l’eventualità di tornare con Elena, ed avendo però detto − in uno scoppio d’ira − a Veronica di essere intenzionato a mollarla al fine di tornare con la ex, lei cercò in tutti i modi di non farli rimettere insieme. Siccome in pratica Andrea era affezionato a Veronica soprattutto da un punto di vista fisico − in quanto quest’ultima era anche disposta a fare cose che invece Elena non voleva fare − disse ad Andrea cose del tipo “Tu sei un vero stallone! Anche se ti rimetti con Elena non potrai più farle certe cose...che ne dici se le filmiamo e le tieni per ricordo?” e lui aveva accettato. In realtà poi si disse pentito di tale decisione, che giustificò con la sua volontà di mostrare agli amici le sue imprese a letto, ma resta il fatto che Veronica, dopo aver filmato il porno amatoriale, lo ha inviato a Elena scrivendole pure che Andrea in realtà non voleva rimettersi con lei, ma voleva continuare a stare con una vera donna, che lo eccita, lo fa godere, lo fa sentire un vero uomo...tant’è che appunto la prova di tutto ciò è proprio il fatto che stanno continuando ad avere rapporti. Andrea, d’altro canto, non pensava assolutamente che Elena potesse ricevere un messaggio simile da Veronica, poichè le due ignoravano la vera identità l’una dell’altra (nessuna delle due sapeva come si chiamasse l’altra su Facebook o Instagram poichè Andrea, dopo aver lasciato Elena, l’aveva bloccata su entrambi i social, pertanto Veronica non poteva risalire all’identità di Elena e viceversa, limitandosi solo a conoscere i rispettivi nomi − Veronica ed Elena − e basta), ma non aveva considerato che Veronica era riuscita a ottenere il numero di Elena, probabilmente poichè l’aveva letto dalla sua rubrica un momento che egli si era distratto e aveva lasciato incustodito il telefono. Naturalmente Elena se la prese moltissimo e in quel momento pensava proprio che non sarebbe mai tornata con Andrea, perchè l’aveva fatta troppo soffrire, ma questi intanto aveva lasciato Veronica ritenendo che quest’ultima cosa che avesse combinato fosse stata la goccia in grado di far traboccare il vaso. Tutte queste cose Francesca le sapeva poichè le sono state riferite da Elena, la quale a sua volta ne era venuta a conoscenza o direttamente o tramite Andrea, una volta tornati insieme. A ogni modo, benchè mi sembrasse un discorso molto sincero quello fatto da Francesca, volevo però avere la prova del nove: dunque, puntando su una mia curiosità professionale, da psicosessuologo, le chiesi di più in merito ai rapporti sessuali intercorsi tra Andrea e Veronica, giacchè si trattava di un argomento che ella aveva toccato. “E quindi in pratica lui stava con lei...giusto per sesso?” Le feci due o tre domandine così, e a un certo punto Francesca, inconsapevolmente, mi comunicò quella che era la prova del nove che io cercavo: tra le varie cose dette, infatti, mi fece partecipe del fatto che Veronica − essendo una bella ragazza − puntava molto sul lato fisico e, a dire di Andrea, aveva un corpo assai curato che gli piaceva molto, anche dal punto di vista artistico dal momento che anch’egli è un estimatore dei tatuaggi. E tra quelli di Veronica apprezzava molto quello rappresentante una “V” artistica in corsivo, “che forse gli piaceva tanto proprio per la posizione in cui stava!” commentò sarcastica Francesca. La “V” in questione, infatti, era posta in una zona poco visibile qualora si indossino degli indumenti, dal momento che risultava ubicata poco al di sopra della zona genitale. Dunque si trattava di un tatuaggio praticamente impossibile da visionare − almeno per intero − per una persona qualsiasi. Insomma, avevo capito che Francesca sosteneva il vero e che tutto ciò che avesse detto fosse stato frutto di una esperienza diretta. Dunque, alla luce di tutto ciò, non potevo far altro che pormi in una maniera disillusa nei confronti di Veronica. Le risposi che mi aveva fatto piacere risentirla, ma la bloccai subito dicendole che mi stavo frequentando con un’altra ragazza, pertanto: “Se vogliamo rimanere ami...”, ma non mi fece finire la frase, poichè doveva congedarmi con “Ma vai a fare in culo, coglione!”. Che dire? Forse non crede tanto nell’amicizia tra uomo e donna....

 

Cosa si può imparare da quest’altra lezione? Qual’è il morale della favola? Anche questa storia insegna moltissime cose sulle persone manipolatrici e il loro modo di fare, di seguito riassunte in 7 punti:

1) Cercano l’accettazione degli altri in tutti i modi e quanto prima possibile. Essere accettati dagli altri è sicuramente una bella cosa, ma si deve pur sempre considerare che il mondo è bello perchè è vario e dunque ogni persona ha diritto di essere se stessa senza dover per forza piacere agli altri, a tutti gli altri, e senza dunque avere la necessità di farsi accettare dal prossimo a tutti i costi. Una persona manipolatrice cerca proprio di farsi amico il prossimo al fine di poterlo manipolare meglio. A riguardo, è esemplare come Veronica tenesse a dare una immagine di sè quanto più possibile “idilliaca” e quanto cercasse di farmi intendere che lei fosse la donna giusta per me, tenera e affettuosa.

2) Fanno favori a prima vista disinteressati, ma che poi risultano essere interessati. Alle parole seguono i fatti: dopo i complimenti ci sono le condotte finalizzate a farsi accettare e ben volere. Tali condotte sembrano dapprima disinteressate, ma poi si scopre che sono interessate, e dunque si pagano a un prezzo molto salato. Da notare, a riguardo, come Veronica raffigurasse la sua volontà di avere un rapporto con me, ovvero dicendomi come, tra tutte le migliaia di uomini che la desiderano, avesse scelto proprio me per farlo per la prima volta dopo il lockdown. D’altra parte un manipolatore sa benissimo che qualora si faccia un favore a una persona, quest’ultima possa poi essere più incline ad accettare le sue pretese.

3) Agiscono secondo un copione. Una persona manipolatrice è tendenzialmente falsa, dunque non avrebbe problemi ad agire secondo un copione, come ad esempio può essere porsi in modo tenero e affettuoso, fare la parte della finta innamorata e della finta donna passionale. Ciò accade anche a causa del fatto che, fortunatamente, non tutte le persone si fanno manipolare, dunque un manipolatore può avere un’esperienza anche molto lunga di tentativi di plagio e manipolazione con altre persone, ragion per cui a quel punto il suo modo di fare diventa per l’appunto un vero e propio copione da ripetere qualora si presenti una nuova vittima.

4) Sono bugiarde o comunque poco oggettive. Abbiamo visto che per una persona manipolatrice è fondamentale farsi ben volere dagli altri e dare un’immagine il più possibile positiva di sè. Di conseguenza, per poter ottenere ciò, è necessario mentire. Nel caso di Veronica non ho potuto constatare cose palesemente inventate a livello diretto, ma tantissime le ho rilevate a seguito di quello che mi ha detto Francesca, ovvero tutte le cose calunniose che Veronica ha detto durante la sua storia con Andrea.

5) Non si fanno scrupoli se vogliono ottenere ciò che vogliono. Essere individui manipolatori richiede un importante sforzo cognitivo: in altre parole, non è facile riuscire ad esserlo, ed ecco perchè la maggior parte dei manipolatori sono persone con sufficiente volontà e decisione. E proprio perchè fare i manipolatori richiede impegno, allora hanno intenzione di andare fino in fondo a tal cosa. Vogliono, insomma, ottenere ciò per cui si sono dati da fare. Stando così le cose, non stupisce tanto il fatto che possano arrivare fino a minacciare la vittima o a stalkerizzarla: ne è un esempio il fatto che Veronica mi minacciò di lasciarmi per un altro qualora non l’avessi assecondata; allo stesso modo è esemplare il modo cinico in cui si è comportata quando stava con Andrea.

6) Parlano tanto e non condividono il punto di vista altrui. Manipolare una persona vuol dire agire sulla sua mente, di conseguenza la via maestra per poter influenzare l’altro è di certo quella di parlarle. Avete presente tutte le volte in cui Veronica non mi faceva parlare e, anzi, si poneva come se l’unica realtà accettabile fosse quella da lei condivisa? Questo è un ottimo esempio. D’altra parte, se l’obiettivo di un manipolatore è quello di far cambiare idee a un’altra persona, di influenzarla, perchè mai dovrebbe accettare il punto di vista dell’altro?

7) Fanno nascere tanti interrogativi nei loro confronti. Infine una buona notizia: se una persona manipolatrice non è facile da riconoscere, è però probabile che faccia nascere degli interrogativi su di sè, poichè questo tipo di individui quasi sempre esula dalla media della normalità delle altre persone di una data società. In altre parole, se è difficile capire se una persona è manipolatrice o meno, non è però allo stesso modo difficile capire che il suo comportamento, quanto meno, risulti essere particolare. Ad esempio, è certamente una particolarità che una bella ragazza single si dimostri così disponibile, tenera, affettuosa e interessata a un uomo, nonostante non lo conosca nemmeno tanto bene. Ovviamente non tutti i comportamenti “strani” sono da considerare dei campanelli d’allarme, ma non bisogna neanche peccare di eccessivo ottimismo, pensando da subito di aver trovato la propria anima gemella qualora tutto proceda come noi vogliamo.

In conclusione, è sempre valido l’avviso − qualora ci si dovesse imbattere in un partner o potenziale partner manipolatore − di non farsi troppi problemi a lasciarlo, e soprattutto non farsi prendere la mente da loro stessi e dal loro modo di essere. Se persone di tal genere fanno nascere nella nostra mente tanti interrogativi, non è però il caso di perdere tempo a cercare delle eventuali risposte. Se infatti si dovesse cercare di trovare una risposta a tutti i dubbi che possiamo avere nei riguardi di una data persona, non faremmo altro che assegnarle importanza e, di conseguenza, anche un certo interesse. Bisogna imparare che l’incertezza va accettata. Perchè la vita stessa è incertezza e la verità non è sempre ciò che sembra.

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWS.

Vita e Morte, Paura e Speranza in vent’anni di Ricerche su Google

Gli anni passano, e anche internet inizia ad avere la sua età, con tutto ciò che ne consegue. Al giorno d’oggi, la pandemia non ha fatto altro che amplificare e accelerare l’irreversibile processo di affermazione sempre più cospicua delle attività online nelle nostre vite, tant’è che la rete stessa è diventata oramai un mezzo di comunicazione di massa, accessibile praticamente a chiunque, e da ciò consegue che internet rappresenta lo strumento più idoneo per studiare la società e gli individui che la compongono. Ma internet è composto da milioni e milioni di siti, che ovviamente non si possono studiare uno ad uno; al contrario è più logico e produttivo analizzare i siti più utilizzati al mondo e, perchè no, proprio il più utilizzato di tutti, Google. Non a caso è stato anche ribattezzato “Big G”, proprio a causa del suo primato di essere al contempo il sito e il motore di ricerca più famoso e più utilizzato al mondo, ragion per cui sarebbe molto interessante effettuare un’analisi psicologica dei termini maggiormente cercati nel presente millennio, a livello globale, tramite Google. Un’analisi, questa, che ci permette di capire a fondo la società in cui viviamo e che è resa materialmente possibile grazie al tool di Google denominato “Google Trends”. Si tratta di uno strumento molto semplice da utilizzare: basta selezionare un dato anno dal 2001 ad oggi ed ecco che compaiono i termini maggiormente ricercati, suddivisi anche per categorie. In questo modo possiamo notare come Google diventi metaforicamente uno specchio attraverso cui possiamo vedere noi stessi, mentre siamo impegnati a cercare i nostri più disparati pensieri − alcuni consapevoli, altri di meno − scrivendoli su un motore di ricerca. Google ha infatti una funzione informativa, ed è proprio per tale ragione che si utilizza: si cerca di approfondire determinati pensieri ed argomenti, di trovare delle spiegazioni ad essi, di avere delle rassicurazioni e così via. Ma a quali tematiche sono riconducibili i principali pensieri che attanagliano l’uomo del nuovo millennio? A concetti molto elementari, e per tale ragione fondamentali, per ogni individuo: vita e morte, paura e speranza. L’uomo del nuovo millennio, a conti fatti, non è poi tanto dissimile da quello delle caverne. E non lo è nemmeno dagli altri animali. In termini darwiniani si potrebbe persino affermare che l’uomo non si discosta tanto dalle specie più elementari di animali, mosse fondamentalmente dall’istinto di sopravvivenza o conservazione: per tale ragione cercano di combattere la morte tramite l’arma della paura, inseguendo così la speranza di rimanere in vita. Ai tempi delle teorie di Charles Darwin non esistevano nè internet, nè l’uomo del nuovo millennio, eppure quest’ultimo è così maledettamente simile a quello delle ere precedenti. Lo conferma Google. Non è un caso se nel presente anno il termine più cercato su Google è stato COVID. La pandemia è infatti un evento concettualmente e fenomenologicamente altamente correlato alla morte, e dunque alla paura, per cui non è un caso se è stato così largamente cercato. Ma non è nemmeno un caso se negli altri anni − pur non essendosi verificati eventi esiziali ai livelli di una pandemia − tra i termini più ricercati troviamo catastrofi naturali di larga portata come uragani, terremoti ed eruzioni vulcaniche. Eventi, tra l’altro, molto facili da assimilare per la psiche e dunque ben comprensibili anche a fasce di popolazione in età scolare o prescolare. Altri eventi legati a morte e paura sono stati quelli di origine artificiale (benchè anche i disastri naturali potrebbero avere quantomeno una concausa artificiale dal momento che possono benissimo dipendere dai cambiamenti climatici causati dall’azione antropica), quali guerre e attentati terroristici: non è un caso, ad esempio, se nel 2014 e nel 2015 uno dei termini in assoluto più cercati è stato ISIS. In casi come questi il fenomeno che porta con sè la morte − e di conseguenza la paura, ovvero la risposta che mette in atto la nostra mente per poterla combattere − è stato ampiamente cercato e studiato proprio al fine di conoscerlo meglio e dunque evitarlo e/o combatterlo. Ma la nostra mente, di fronte a un fenomeno altamente carico di emotività quale è la morte, molto spesso non funziona in termini statistici e oggettivi, bensì soggettivi ed emotivi. Infatti, molte volte si tende a sovrastimare i casi di morte spettacolare, strana, misteriosa, irrisolta e/o romanzesca rispetto a quelli in cui il decesso avviene in modi normali, scontati e ben spiegabili: a questo punto la mente tende a dare praticamente la stessa importanza sia alle morti del primo tipo, sia a quelle del secondo. Non è un caso se il celebre documentario − in Italia trasmesso su Sky − Mille modi per morire ha avuto così tanto successo: semplicemente ricostruisce le morti più strane, realmente avvenute, al fine di suscitare interesse nei confronti del telespettatore. Ed è stata appunto la paura della morte, a prescindere dal modo in cui la stessa è avvenuta, ad aver fatto cercare su Google illustri nomi dello sport e dello spettacolo...soprattutto quando sono morti! E sono stati cercati ancor più se la loro dipartita è stata, come abbiamo visto prima, di carattere misterioso, irrisolto e romanzesco. Non a caso, Diego Armando Maradona è stato uno degli individui in assoluto più cercati su Google quest’anno, così come lo è stato Michael Jackson nel 2009, Amy Winehouse nel 2011, Avicii nel 2018, Chris Benoit nel 2007. Tutte persone accomunate da morti legate a circostanze misteriose, inclusi suicidi apparentemente inspiegabili (Avicii e il wrestler Chris Benoit), che hanno dato origine anche a teorie complottistiche e a miti e leggende metropolitane (ad esempio la tesi secondo cui Michael Jackson sia ancora vivo). E anche qui si può constatare come, a distanza di millenni, l’uome sempre è lo stesso: un Ulisse il quale, mosso dal suo innato desiderio di conoscenza, si spinge oltre le colonne d’Ercole. Ed effettivamente, è da riconoscere che una cosa che proprio non sopporta la nostra mente è l’incertezza. Quando è presente, si cerca in tutti i modi di esorcizzarla. Tramite la conoscenza. Una meta che si desidera raggiungere attraverso quello che è il mezzo più immediato, semplice da utilizzare e alla portata di (quasi) tutti: Google. Il detective dentro ognuno di noi si cimenta così con lo scoprire le cause delle morti di personaggi celebri, al fine di razionalizzare una delle cose che più temiamo: la morte. Un argomento di rilevanza particolare nella vita di ognuno di noi, che quindi vogliamo approfondire e conoscere al meglio. Non è un caso che tutte quelle morti legate a circostanze misteriose o anche tutte quelle perdite − in senso lato − legate a persone scomparse siano le più difficili da elaborare e digerire: sono infatti i lutti a cui non è possibile aggiungere la parola “fine”, quelli ove la conoscenza esibisce i suoi limiti. E laddove la conoscenza si ferma, spesso prosegue la fantasia, come nel caso sopracitato della leggenda metropolitana secondo cui Michael Jackson sia ancora in vita. Da Google Trends possiamo dunque imparare come la morte sia un fenomeno così importante per la nostra mente, tanto che non sono solo le celebrità decedute quelle ad essere più cercate online, ma anche coloro le quali sono vittime di episodi in cui hanno rischiato realmente la vita. Prendendo ad esempio l’anno 2018 − forse quello più importante ed esemplificativo di tutti ai fini dell’analisi psicologica delle keywords cercate su Google − possiamo notare come la seconda donna più cercata al mondo sia stata Demi Lovato, che proprio quell’anno ha rischiato perfino più volte di fare la fine di Amy Winehouse, ovvero di perire a causa di overdose; l’uomo invece più cercato su Big G è stato Avicii, il quale è risultato addirittura più ricercato nell’anno della sua morte che negli anni in cui ha avuto un successo planetario! E come se non bastasse, va notato che nel 2018 Avicii non ha tenuto nemmeno un dj set, mentre nel periodo di maggior successo (grosso modo da fine 2011 al 2016) faceva così tante date da arrivare a soffrire di patologie psico-fisiche o comunque dipese da tale situazione di eterno stress. Eppure, il mondo intero ha dato più importanza alla sua morte che a qualsiasi altra cosa abbia mai fatto.

La mente umana, però, non può pensare in continuazione a concetti emotivamente negativi come la paura e la morte, e pertanto cerca anche delle valvole di sfogo che possano in un certo qual modo donare serenità e speranza. Anche tal cosa è constatabile consultando Google Trends, poichè le ricerche più effettuato su Google contemplano molte volte temi quali lo sport, la musica, il cinema e il gossip. A tal proposito, prendendo sempre ad esempio il 2018, possiamo constatare come la donna più cercata al mondo in quell’anno, anche più di Demi Lovato, è risultata essere Meghan Markle. E nel 2006, invece, la donna più cercata su Google è stata Paris Hilton. D’altra parte è chiaro che qualsiasi donna, in cuor suo, sognerebbe una storia da favola come quella di Meghan Markle o di Paris Hilton: cosa c’è di più favoloso nella vita se non vivere come una ereditiera multimilionaria o una principessa? Per quanto si possa affermare di essere soddisfatte dalla propria vita, è innegabile che condurre un’esistenza come quella di Meghan Markle o di Paris Hilton sarebbe proprio come vivere in una favola, in un sogno...perchè sognare può realmente donare la speranza e aiutare a combattere lo stress quotidiano e le altre emozioni negative. Un altro dato che conferma che alla gente piace sognare parla italiano: si tratta della Ferrari, termine di ricerca tra i più gettonati in tempi pre-crisi (ad esempio nel 2004 o nel 2003, superando − come volume di ricerca − numerosi e conosciutissimi brand internazionali quali Disney, Sony, Ryanair, Walmart, HP, Dell e BMW). Ora, se una persona cerca su Google un’auto qualsiasi, come una Toyota o una Fiat, lo fa principalmente per informarsi al fine di acquistarla, prenderla in noleggio o anche venderla qualora ne fosse in possesso. Ma quanta gente ha la disponibilità economica per comprare una Ferrari? Di certo non tutti quei milioni di persone che l’hanno cercata su Google. Magari l’avranno cercata pure per seguire il campionato costruttori della Formula 1, ma pure lo sport − al fine di attrarre i tifosi-telespettatori che guardono anche e soprattutto le numerose pubblicità presenti nei vari campionati − fa leva sulla necessità della nostra mente di trovare una valvola di sfogo ai problemi quotidiani e dunque di sognare e svagarsi. Nel caso della Formula 1, ad esempio, una delle cause principali per cui si seguono le gare automobilistiche è proprio perchè disputate con auto sportive dalle grandi performance, con tutto ciò che ne consegue. Insomma, così come una donna può sognare immedesimandosi in una principessa come Meghan Markle o in una ereditiera come Paris Hilton, un uomo può sognare immedesimandosi in un pilota strapagato di Formula 1, al volante di una splendida vettura sportiva e che, qualora dovesse vincere, si troverebbe dinanzi a sè una grande festa con un enorme bagno di folla pronta a idolatrarlo. Supponiamo che invece si trattasse di una gara automobilistica tra city car o, peggio, ape car e con piloti improvvisati: chi perderebbe tempo a guardarla? Di certo non regalerebbe le stesse emozioni della Formula 1, non arriverebbe a soddisfare quel bisogno di evasione a cui la mente ha diritto. Ma, consultando ancora a fondo i dati di Google Trends possiamo avere sì la conferma che la Formula 1 rappresenta uno degli sport più celebri al mondo, ma il primato lo detiene senz’altro il calcio. E le conferme sono molte: i calciatori compaiono praticamente ogni anno nell’elenco delle persone più cercate, ogni 4 anni i mondiali di calcio sono l’evento più cercato di tutti, e così via. Che il calcio sia lo sport più seguito al mondo non stupisce più di tanto, stupisce però che la gente lo anteponga a questioni ben più importanti, come lo sono i cambiamenti climatici: dai dati di Google Trends si apprende infatti che Greta Thumberg è una illustre sconosciuta in confronto a Neymar Jr., il quale risulta essere ben più cercato rispetto all’attivista svedese. D’altra parte si sa che il cambiamento climatico è una questione seria...ma mai tanto quanto il calcio. Questa tendenza a non dare eccessivo risalto al cambiamento climatico − che potenzialmente è molto più pericoloso di una pandemia − può essere spiegata con il fatto che la mente dà molta più rilevanza a minacce percepite come hic et nunc, immediate e immediatamente pericolose, quali quelle che abbiamo visto precedentemente: guerre, attentati, pandemie, catastrofi naturali ben definite (uragani, terremoti, eruzioni vulcaniche...), eccetera. I cambiamenti climatici sono un fenomeno che non ha effetti dannosi nell’immediato, pertanto la nostra mente fa fatica a reputarli come effettivamente pericolosi per l’incolumità personale. Anche su questo c’è molto da riflettere.

Un altro dato che fa riflettere, e che si può constatare dall’analisi approfondita dei dati di Google Trends, è come la società cambia con la continua innovazione tecnologica, sia a livello hardware sia software. Nel primo caso, se analizziamo la categoria di gadget tecnologici (telefoni, tablet, lettori mp3/mp4...) possiamo notare come rigorosamente cambino ogni anno, poichè un device prodotto l’anno prima è già vecchio l’anno dopo, con la conseguenza diretta di perdere subito d’interesse. Nel secondo caso, se consideriamo internet possiamo constatare come tale tecnologia ha cambiato profondamente la società in cui viviamo. Effettivamente l’accesso alla rete e l’utilizzo attivo dei social network ha portato a cambiamenti sociali su vasta scala, anch’essi visibili dall’analisi dei dati di Google Trends. É un po’ come dire che attraverso internet possiamo vedere internet stesso, a distanza di alcuni anni. Non tanti, giusto una decina. Ora, proviamo a lanciarci in un nostalgico viaggio, seppur virtuale (ma al giorno d’oggi cosa non lo è?), indietro nel tempo, fino al 2010: c’erano più soldi e non c’era la pandemia, ancora non iniziava la “primavera araba” e con essa l’ISIS e una lunga serie di guerre, in Italia ancora non si verificava una crisi economica, anzichè sui DPCM il dibattito politico era incentrato sulle donnine allegre che sollazzavano un premier, bastava essere presenti su un unico social per essere social e...si ascoltava Justin Bieber. Dato, quest’ultimo, a prima vista di poco spessore e, onestamente, che mette a dura prova l’umana sopportazione, dal momento che quando si pensa a Justin Bieber affiorano inevitabilmente alla mente i nugoli di ragazzine impazzite e urlanti che inneggiano alla sua persona. Ma, che si voglia o meno, Justin Bieber è destinato (purtroppo?) a rimanere nella storia. Sì, perchè trattasi del primo caso al mondo di popstar di fama mondiale il cui lancio è dipeso da internet, nella fattispecie dallo streaming online, poichè Justin si è affermato come cantante proprio poichè realizzava dei suoi video in cui si esibiva cantando (e suonando la chitarra), che poi caricava su YouTube. E da lì è iniziato il suo successo, confermato dal fatto che nel 2010 è risultato essere la persona più cercata su Google. La ex coppia formata da lui e da Selena Gomez è esemplare a riguardo, poichè vede a confronto due popstar di stile, età, localizzazione geografica e fama in tutto e per tutto molto simili, ma dai background completamente diversi: lui lanciato da YouTube, lei dalla TV (Disney Channel). E andando avanti con gli anni di ricerche su Google possiamo anche constatare che via via le grandi popstar che hanno raggiunto un successo mondiale si sono sempre di più affermate via internet, ovvero caricando loro canzoni online, come nel caso di Ed Sheeran prima e di Billie Eilish dopo, solo per citarne qualcuna. E con le popstar dei nostri giorni torniamo prepotentemente al tempo presente, lasciandoci alle spalle i bei ricordi di 10 anni fa. Che questo sia stato un anno strano, difficile, si può capire anche da Google Trends: a ben vedere, se si confronta il 2020 con gli altri anni, si evince come sia stato praticamente l’anno più dissimile da tutti quanti gli altri. Un’eccezione che conferma la regola? Sì, almeno fino ad ora. Un augurio a tutti voi di buon 2021, sperando che l’anno prossimo su Google si cerchino solo keywords di vita e di speranza.

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWS.

FOMO - la sindrome ansioso-depressiva legata ai social e le sue cause psichiche

Che l’ascesa dei social network fosse inarrestabile e inevitabile è cosa nota già da un decennio, ma ciò che non si poteva sapere anni addietro è che sarebbe avvenuta una pandemia che avrebbe accelerato ancor più tale ascesa. Infatti, in un’epoca il cui motto è #iorestoacasa, appare evidente come i contatti mediati digitalmente dai social network abbiano preso via via il posto dei contatti offline, in nome del mantenimento del distanziamento sociale imposto dai vari DPCM. Che il distanziamento sociale sia cosa buona e giusta durante una pandemia è risaputo, ma un utilizzo così massiccio di internet e dei social network, considerati praticamente come uno dei pochissimi mezzi a disposizione al fine di preservare dei contatti sociali, seppur virtuali, non poteva che portare con sè anche un conseguente incremento di vere e proprie patologie ad essi collegati: si tratta degli IAD, gli Internet Addiction Disorders (cioè disturbi da abuso di internet), sotto la cui etichetta ricade tutta quella serie di patologie causate da un utilizzo eccessivo e disadattivo della rete, dunque errato sia da un punto di vista quantitativo (poichè eccessivo) sia da uno qualitativo (poichè disadattivo). Uno dei più pericolosi IAD è proprio legato ai social network, e si definisce “FOMO” - Fear Of Missing Out, ovvero la paura di essere “tagliati fuori” dai rapporti sociali. Tale paura di esclusione sociale, amplificata dal fatto che come ben sappiamo i social network sono uno dei pochi mezzi che abbiamo a disposizione per avere dei rapporti sociali nello scenario attuale, può portare a delle vere e proprie sintomatologie di ansia e depressione, poichè se non si è (onni)presenti sui social network, non si ricevono abbastanza like, commenti, messaggi, visualizzazioni, condivisioni e via dicendo, allora ci si deprime in quanto si ritiene di non piacere agli altri. Tale ricerca spasmodica del consenso e della visibilità non può che essere causa d’ansia, che a sua volta amplifica questo iperutilizzo dei social network, arrivando dunque a creare un vero e proprio circolo vizioso. Una problematica, questa, che non è più legata − come in passato − soltanto a una determinata fascia d’età (ovvero quella più giovane), ma a tutte le fasce anagrafiche, se pensiamo che, ad esempio, tantissimi over 70 al giorno d’oggi utilizzano attivamente Facebook. Ma nonostante tale patologia potenzialmente potrebbe colpire qualsiasi utente dei social network, a prescindere dall’età, ancora una volta chi ne paga maggiormente le spese sono proprio i più giovani: infatti i social hanno hanno la peculiarità di poter rendere quantificabile la fama, la popolarità e la conseguente influenza sociale di un dato individuo. D’altra parte chi sono al giorno d’oggi i giovani giudicati, dai loro pari, come i più “fighi”? Coloro i quali hanno sui loro profili social più follower, like, visualizzazioni, commenti e via dicendo. E proprio al fine di raggiungere questo obiettivo fin troppi giovani si impegnano in atti, anche molto pericolosi, che non hanno altro scopo se non quello di aumentare la loro popolarità mediatica. Bravate che possono costare anche molto care, fino a pregiudicare l’incolumità fisica e portare ad esiti nefasti. Come nel caso di Antonella, la bambina siciliana di 10 anni resa famosa quest’anno a causa di una sfida su TikTok. Una sfida che si sarebbe poi rivelata letale. Ma tale indice di popolarità è così tanto considerato anche perchè viene utilizzato pure per fini aziendali, con l’obiettivo di mettere “sotto esame” i vari influencer o aspiranti tali: se appunto hanno tanti follower, like e via dicendo, allora hanno più possibilità di poter collaborare con le varie aziende intenzionate a pubblicizzare i loro prodotti sui social network. E come se non bastasse, è recentemente emerso anche il concetto di engagement, ovvero della capacità di un dato utente di intrattenere gli altri utenti mediante i contenuti da lui postati. Questa capacità di intrattenimento si può anche misurare tramite appositi software, la cui maggior parte risulta a pagamento (ma ne esistono anche alcuni gratuiti, come quello messo a disposizione su questo sito), che praticamente mettono in relazione tra loro il numero di follower di un dato utente con il numero medio di like e commenti che ricevono i suoi post. Dunque al giorno d’oggi, oltre al dare per scontato il fatto che per essere qualcuno sui social network è fondamentale avere il maggior numero possibile di follower, like, visualizzazioni, eccetera, sta emergendo perfino quest’ultima necessità, che prevede che un dato utente non solo debba avere tanti follower, ma anche un numero di like e commenti per ogni post proporzionato al numero di follower. Siamo arrivati al livello che ogni persona avente un account social debba comportarsi come una scimmietta ammaestrata impegnata a esibirsi in uno spettacolo, il cui successo dipende dal numero di persone che attira per visionarne l’esibizione e dalla quantità di applausi che dalle stesse riceve. L’engagement rate è però una misura quantitativa, non qualitativa, e dunque può emergere, ad esempio, che una foto della Cappella Sistina sia inferiore rispetto a quella di un bel sedere femminile in primo piano dal momento che la prima riceve meno like della seconda. Insomma, è chiaro che assolutamente il numero di like non può essere considerato come garanzia di qualità di un determinato contenuto, e a maggior ragione ho voluto approfondire tale argomento mettendo a confronto su Instagram l’engagement rate di deputati e senatori, da un lato, e di semplici ragazze carine, dall’altro, con un numero di follower simile tra loro: ne è emerso che i politici, nonostante presentino quasi sempre profili social molto ben curati (anche perchè amministrati dettagliatamente da social media manager lautamente retribuiti), hanno fotografie e video vertenti prevalentemente su votazioni alla Camera o al Senato, visite istituzionali e incontri con altri politici, sindacati, elettori effettivi o potenziali, eccetera, con un numero di like generalmente ben inferiore a quello delle ragazze che pubblicano foto in stile “copertina di Playboy”. Da notare che si tratta di semplici ragazze qualsiasi, non modelle di professione o influencer famose; se facessimo il confronto “deputati e senatori vs. modelle e influencer” ovviamente i politici ne uscirebbero allo stesso modo sconfitti (ma anche peggio di prima), avendo in media un numero di like e follower enormemente inferiore rispetto a loro. Ma allora come si fa a capire se un dato contenuto social possa essere di qualità o meno? Facendo l’esempio di Instagram, da un punto di vista strettamente tecnico è possibile capire se una data fotografia è “presentabile” o meno semplicemente perchè è il social network stesso che se ne accorge, tramite un algoritmo che automaticamente decreta se certe foto sono di alta o bassa qualità. Per poterlo capire bisogna avere un account aziendale (ma qualsiasi normale account di Instagram può essere convertito gratuitamente in aziendale tramite dei semplici passaggi nella sezione “impostazioni”): infatti Instagram, dando per scontato che un’azienda voglia farsi pubblicità sui social, dà la possibilità a tali account di “promuovere” − ovvero sponsorizzare, mettere in pubblicità − un dato post. Supponiamo che un dato ristorante voglia farsi pubblicità su Instagram sponsorizzando una foto di una specialità culinaria del locale: tale post, dal momento che una volta sponsorizzato godrà di una visibilità maggiore, dovrà dunque essere di qualità, almeno dal punto di vista strettamente grafico, per cui Instagram rende impossibile la promozione di foto aventi una scarsa qualità dell’immagine, e anche se cliccassimo sul relativo tasto promuovi, non sarebbe possibile promuovere alcunchè. Effettivamente in tal caso tale tasto apparirebbe sbiadito e, una volta premuto, comparirebbe una scritta che, appunto, informa che non è possibile promuovere il post in questione in quanto di bassa qualità (solitamente perchè di bassa risoluzione). Quindi, se è possibile promuovere una data fotografia vuol dire che la stessa supera gli standard minimi di qualità imposti dal social network e, in ogni caso, se volessimo ancora migliorarne la qualità grafica si potrebbe pur sempre utilizzare un software come Photoshop o anche il programma di photo-editing stesso di Instagram, disponibile ogniqualvolta vengono caricati contenuti sul social. Una volta caricata una bella fotografia, è necessario anche impostare dei buoni hashtag per renderla rintracciabile da altri utenti a cui può essere d’interesse. A tal proposito è necessario utilizzare gli hashtag più pertinenti per la fotografia in questione, evitando laddove possibile quelli esageratamente di nicchia (ad esempio quelli utilizzati meno di mille volte) o quelli esageratamente popolari (ad esempio quelli utilizzati milioni di volte), al fine di concedere un’adeguata esposizione al post. Se la foto è ben fatta, simpatica, originale, interessante e via dicendo, sicuramente qualcuno metterà il like. E qui non conta la quantità. Ma la qualità. Facciamo l’esempio di aver postato la fotografia di un gatto: se riceve like da profili di utenti ai quali è palese che piacciano i gatti (ad esempio persone con gatti in ogni foto, profili di veri e propri gatti o community di amanti di gatti), vuol dire che il post è di qualità. Di fatto, se ad utenti che vedono decine, se non centinaia, di foto di gatti tutti i giorni piace tale post, vuol dire che è di qualità in quanto giudicato tale proprio da “esperti del settore”. Ovviamente un amante di soli cani o una persona a cui non piacciono proprio gli animali non metterebbe mai un like a una fotografia di un gatto...e non per questo ci si dovrebbe preoccupare. E se poi chi mette il like non sono “semplici esperti in materia”, ma “grandi esperti in materia”, tanto meglio. Ora facciamo l’esempio di una ragazza la quale si diletta a tempo perso con nuove creazioni in cucina e che pertanto posta le sue ricette su Instagram: se si tratta di una ricetta gustosa, interessante e originale, allora potrebbe prendere like da altri cuochi − professionisti o dilettanti che siano − e perfino da qualche chef stellato. E un like assegnato da un grande chef ovviamente varrebbe molto di più di un like dato, ad esempio, da uomo qualsiasi il quale non ha nemmeno guardato bene il piatto proposto, ma si è limitato a mettere il like tanto per ingraziarsi questa ragazza e attirare su di sè la sua attenzione. E potrebbe trattarsi anche della frittura di pesce migliore del mondo, ma ovviamente nessun vegano, nessun animalista metterebbe mai il like a una foto del genere. Dunque i social network, se ben analizzati, ci insegnano che la qualità è di gran lunga più importante della quantità, e che non è possibile piacere a tutti. In fin dei conti perchè si dovrebbe? L’utilizzo improprio dei social spinge una persona a badare più all’apparenza che all’essenza, a dover piacere a tutti a costo, poi, di non piacere a se stessi. Ed ecco qui che spuntano fuori l’ansia e la depressione della FOMO, una patologia caratteristica dei nostri giorni e della condivisione compulsiva di ogni attimo che compone la nostra esistenza. Centinaia di milioni di persone inseguono la chimera del piacere a tutti e perdono di vista se stessi: perchè infatti mi dovrei preoccupare se un dato contenuto non piace agli altri? L’importante è che piaccia a me. E in secondo luogo ad altre persone che condividono i miei stessi interessi. Non importa quante poichè la quantità non è assolutamente garanzia di qualità e anzi, spesso, come abbiamo potuto constatare, è proprio l’opposto. Insomma, queste ansie “da social” si possono esorcizzare se e solo se si prende coscienza dell’inutilità di volersi esporre non come chi si è veramente, ma come si vuole apparire. É proprio da questo errore che scaturisce il meccanismo malsano della compiacenza. Oltretutto, a conferma del fatto che è impossibile piacere a tutti − e dunque da stupidi il cercare di metterlo in atto esponendosi sui social − si è espressa perfino la Corte di Cassazione: infatti la Suprema Corte ha emesso anche una sentenza in cui si afferma che non è reato augurare la morte ad altre persone. I principi che hanno spinto la Suprema Corte ad arrivare a questa conclusione partono proprio dal presupposto, come si può leggere nella relativa sentenza, che nella vita non si può piacere a chiunque e che dunque l’odio e il disprezzo siano fenomeni normalissimi − sebbene ovviamente non piacevoli − che possono anche portare, nella fattispecie, a condotte quali l’augurare a una persona a noi non simpatica la sua celere dipartita. E se ce lo fa notare anche la giurisprudenza, vuol dire che il desiderio di piacere a tutti non è di certo un obbligo di legge. Perchè dovremmo tentare di raggiungerlo, mettendo anche a repentaglio la nostra salute?

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWS.

Psicologia delle Criptovalute: il valore di bitcoin & co è solo psicologico?

Se Elettra Lamborghini twerka in un video come quello di Pem Pem, divenuto poi virale, lancia la moda di un ballo. Se un eccentrico miliardario quale Elon Musk si fa testimonial di una criptovaluta come il bitcoin, lancia la moda di un investimento. Un investimento che sicuramente avrebbe largamente ricompensato chi 10 anni fa ha acquistato anche solo una manciata di bitcoin. Ma le criptovalute non sono dei BOT a 10 anni, ed è estremamente difficile ipotizzare che ci sia tanta gente pronta a detenere un investimento estremamente volatile per così tanto tempo. Le criptovalute, a differenza di investimenti più tradizionali, oltre a essere estremamente volatili, sono circondate quasi da un’aura mistica, per cui non è raro trovare persone le quali sono profondamente convinte che i loro bitcoin ogni giorno possano aumentare di valore, ed ecco spiegato il perchè sono pronte a tenerli praticamente all’infinito. Ecco, ma sono convinte, cioè trattasi praticamente di una mera opinione personale, poichè a livello scientifico è praticamente impossibile stimare il valore delle criptovalute anche solo tra pochi mesi, proprio per la loro elevatissima volatilità. Possiamo dunque constatare che il valore di una criptovaluta sia formale, psicologico, legato insomma a quanto un certo gruppo di persone − ad esempio i “bitcoiners” − gli diano importanza. Senza tale valore psicologico, il bitcoin non varrebbe assolutamente nulla. Non si tratta di una materia prima, con un dato valore intrinseco, potenziale, dato dal suo successivo impiego, nè di un’azienda con utili e relativo patrimonio aziendale…insomma si tratta soltanto di un valore simbolico, che sussiste fino a quando ci sarà un sufficiente numero di persone − legate dalla moda di investire in criptovalute − le quali intendono darglielo. Si potrebbe ribattere che anche le valute fiat, cioè quelle tradizionali, abbiano solamente un valore simbolico, poichè, ad esempio, una banconota da 50 € di per sè è solamente un pezzo di carta, non ha dunque un valore pari a quello che ci si potrebbe acquistare spendendola, ma questo suo valore e questa sua spendibilità sono comunque sanciti dalla legge. Anche l’ex presidente della BCE Mario Draghi ha commentato che dietro a una valuta fiat c’è uno stato, c’è una banca centrale, mentre dietro alle criptovalute non c’è nulla; l’attuale premier italiano ha inoltre affermato che le criptovalute sono un asset (cioè un investimento) altamente rischioso e pertanto gli investitori che perdono anche grandi ricchezze poichè le hanno investite in criptovalute non andrebbero indennizzati. Nonostante ci si possano aspettare, tendenzialmente, parole più umane, comprensive e caritatevoli da un uomo rimasto orfano in giovane età e allevato dai gesuiti (il paragone con un’altra personalità cresciuta dai gesuiti, San Gabriele dell’Addolorata, è a dir poco impietoso), fatto sta che le criptovalute sono viste molto male dalle banche centrali e, più in generale, dai capi di stato, proprio perchè potrebbero far perdere il valore alle valute fiat. Certo, ci sono pure delle eccezioni, che confermano però la regola, come il caso isolato del piccolissimo stato di El Salvador, che per attirare investitori internazionali in una realtà ove la stragrande maggioranza degli investitori tradizionali non metterebbe mai piede (considerato anche che questa piccola nazione si basa principalmente su una economia di sussistenza e il Pil pro capite è estremamente basso) ha pensato bene di rendere il bitcoin la moneta ufficiale. Ma cosa dire invece dell’economia più potente al mondo, che ha praticamente superato anche quella degli USA, ovvero la Cina? Anche le autorità cinesi hanno accettato di buon grado i bitcoin? Nemmeno per sogno: a maggio hanno addirittura vietato alle banche le attività legate alle criptovalute, di fatto iniziando una vera e propria guerra economica contro di esse. Le conseguenze? Crollo del valore dei bitcoin. Ma il mese di maggio non è stato nero per i bitcoin solo a causa di tale decisione del governo cinese, poichè anche un semplice tweet può far crollare il valore dei bitcoin. E non è il tweet di qualche capo di stato, nè di organizzazioni criminali quali l’ISIS o Anonymous, ma dello stesso paladino della prim’ora dei bitcoin, Elon Musk, il quale un bel giorno si è svegliato, ha constatato che il processo di produzione dei bitcoin − il cosiddetto mining, un’attività che prevede degli appositi calcoli automatizzati da parte di computer di alta gamma, che necessitano di rimanere accesi e connessi alla rete praticamente notte e giorno − è altamente energivora e pertanto dannosa per l’ambiente, e dunque ha dichiarato con un tweet che la sua ditta automobilistica, la Tesla (che prima permetteva di acquistare auto in bitcoin, facendo dunque salire il valore degli stessi) non avrebbe più accettato tale forma di pagamento e che lui stesso si sarebbe concentrato su un altro tipo di criptovaluta più amica dell’ambiente. Stando così le cose, a meno che Elon Musk non sia stato posseduto da Greta Thumberg, il significato della sua mossa è semplice: amplificare o diminuire il valore del bitcoin a seconda del suo tornaconto personale. Questo è l’esempio lampante di quanta psicologia vi sia dietro ai bitcoin: in fin dei conti sono proprio gli atteggiamenti, le mode e le opinioni del momento − amplificati da esternazioni di personaggi e/o società importanti (e che pertanto sono in grado di esercitare un’elevata influenza sociale sui più) − a determinare il valore delle criptovalute. Ed è palese che siano tutti fattori estremamente imprevedibili e ondivaghi. Ecco perchè sono anche estremamente imprevedibili e ondivaghi i valori delle criptovalute. Ciò può portare con sè un elevato rischio, come ha affermato − oltre a Mario Draghi − anche gran parte delle associazioni dei consumatori. D’altra parte le persone che investono in asset tradizionali, come azioni, obbligazioni, fondi comuni ed etf, hanno quantomeno un minimo di tutela data dal fatto che su tale tipo di investimenti la legge prevede che vi sia la vigilanza della Consob e della Banca d’Italia; ma tra l’altro una persona che vuole effettuare un certo tipo di investimento tradizionale deve prima compilare un questionario detto “Mifid”, che praticamente ha lo scopo di chiarire le conoscenze e le competenze in materia finanziaria di un potenziale investitore, nonchè il suo patrimonio mobiliare ed immobiliare e la sua propensione al rischio. Tutte queste informazioni concorrono a stabilire, almeno sulla carta, quali possono essere gli investimenti migliori per una data persona. Tutte queste garanzie non esistono per quanto riguarda i bitcoin. Dopo il fallimento della banca Tercas, gli ex azionisti hanno potuto effettuare delle class action contro la banca stessa, ma invece se si perdono i bitcoin non si può fare causa a nessuno, poichè, come asserito anche da Mario Draghi, “Non c’è nessuno dietro ai bitcoin”. Ma proprio perchè tante banche spesso mal consigliano gli investitori, facendoli dunque perdere in borsa, esistono proprio delle società specializzate nel recuperare soldi persi in tal modo, laddove venga accertato il dolo da parte dell’istituto bancario. Ovviamente ciò non è possibile con le criptovalute, poichè sono un “non investimento”. Ma se si acquistano “a 10” e si vendono “a 20”, ci si guadagna la differenza (in valuta fiat). Non c’è altro modo per guadagnare con le criptovalute se non questo tipo di speculazione. Ma bisogna anche sperare che il valore della criptovaluta salga e che non ci sia nessuna persona in grado di orientarne il valore che un giorno decida di scrivere un bel tweet che la faccia crollare in borsa. E il caso del tweet di Elon Musk è magistrale, proprio nella sua surrealità e allo stesso modo, però, nel suo modo estremamente reale di influenzarne così pesantemente il valore. É un po’ come se un giorno la regina Elisabetta si svegliasse e scrivesse un bel tweet per far crollare il prezzo del tè: “Ora basta con questa storia del tè: noi inglesi ci siamo stufati di un simile clichè! Da oggi il pomeriggio si beve solo spritz! A breve verrà emanato un editto con cui si vieterà la produzione e la commercializzazione del tè su tutto il territorio del Regno Unito”. Poi l’Irlanda del Nord annuncia un referendum per annettersi con il resto dell’Irlanda, gli indipendentisti scozzesi annunciano che è arrivato il momento di fondare lo “Stato di Scozia” e i castelli del Galles vengono riconvertiti in laboratori clandestini di produzione di tè verde. A questo punto, dato che con i bitcoin si può acquistare, nel deep web, qualsiasi tipo di prodotto illegale, dalla droga alle armi, dai documenti falsi ai video pedopornografici, perchè non acquistare anche del buon tè?

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