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Immagine del redattoreEugenio Flajani Galli

Iperconnessione a internet: la dipendenza tecnologica che colpisce le nuove generazioni

Le odierne generazioni, si sa, sono molto affezionate alla tecnologia che le circonda, così tanto da arrivare a esserne perfino dipendenti. La nuova dipendenza dalla rete, facilmente accessibile su qualsiasi device, ha assunto la denominazione di IAD (internet addiction disorders). Sono in pochi a conoscerla nello specifico, ed è un vero peccato, perchè soprattutto i genitori, ma anche gli altri familiari, gli educatori, i docenti e più in generale chiunque ha contatti stretti con la smart generation non può esserne all’oscuro. Un recente studio, condotto su un campione italiano di 8000 partecipanti tra i 14 e i 19 anni, può chiarire meglio le idee, anche perchè di studi italiani ed aventi un campione così copioso non se ne trovano in tanti...ora lo presento più nel dettaglio, commentandolo come ho fatto nel mio ultimo convegno ove ho affrontato questa tematica.

Il 98% della popolazione avente un’età compresa tra i 14 e i 19 anni possiede uno smartphone a partire dai 10 anni e oltre 3 su 10 lo usano a partire da 1 anno e mezzo/2.

Che il 98% possieda uno smartphone non stupisce chi conosce le nuove generazioni, ma forse sono in pochi ad essere a conoscenza del fatto che circa un terzo di essi già lo utilizzi a partire da un’età in cui l’essere a contatto con uno strumento quale lo smartphone è assolutamente prematuro. Lo scopo principale di un telefono è appunto quello di rimanere o entrare in contatto con altre persone nel momento in cui la barriera rappresentata dalla distanza fisica ne pregiudica (o ne rende meno appetibile) il contatto diretto. Ovviamente però un bambino che ha 2 anni o anche meno non possiede una vita sociale tale da aver bisogno di un cellulare per poter contattare altre persone, nè tantomeno esce da solo di casa rendendo dunque necessario il possesso del telefonino; per quanto riguarda invece la navigazione su internet che lo smartphone mette a disposizione dell’utente, è chiaro che tale attività conoscitiva esula dalle necessità epistemologiche di un bimbo di questa età, a maggior ragione poichè ciò di cui avrebbe bisogno di scoprire e conoscere già lo può ben scoprire e conoscere osservando ed esplorando la realtà che lo circonda: non c’è dunque alcun bisogno di far conoscenza di ciò che la realtà online ha da offire, oltretutto in quanto così facendo si troverebbe a conoscere meglio la rete della realtà offline in cui passa la sua esistenza (un vero e proprio paradosso per un 2.0 new born!). Più che altro i genitori rei di mettere lo smartphone nelle mani di un bambino così piccolo forse non capiscono che in tal modo favoriscono una vera e propria dipendenza, poichè il bimbo messo a contatto con uno strumento tecnologico potente quanto lo smartphone sin dai primi anni di vita cresce arrivando ad assimilare il telefono come una parte di sè, come qualcosa che deve avere sempre con sè e da cui non può mai separarsi, ovvero ne è dipendente così come un tossicodipendente lo è per la droga, un alcolizzato per l’alcool, un giocatore d’azzardo per il gioco...ecco poi perchè ci sono tanti bambini i quali reagiscono con colossali capricci allorchè li si priva del cellulare! Un’argomentazione spesso utilizzata dai genitori che propugnano l’uso dello smartphone da parte di bimbi poco più che lattanti è che “in questo modo imparano prima e meglio l’utilizzo di uno strumento tanto importante quanto è lo smartphone”, ma in realtà la ragione che li spinge ad abituare i figli a giocherellare con il telefono − scrivo giocherellare perchè a quell’età non è concepibile che il bambino lo utilizzi per chissà quali altre ragioni − non è la “socializzazione alla tecnologia” per fini didascalici, di modo che un giorno possano riuscire meglio nel loro utilizzo, bensì la mera finalità di intrattenimento che assimila il nobile smartphone ad una mera tata o ad un consolante ciuccio. Effettivamente anche bimbi più grandi, i quali frequentano la scuola elementare o quella media inferiore, sono perfettamente in grado di imparare ad utilizzare uno smartphone anche se non l’hanno avuto nelle mani fin da quando erano in fasce; d’altra parte ci riescono anche gli adulti ad imparare ad utilizzarlo, figuriamoci i bambini! Dunque non serve nascondersi dietro a un dito: è palese che i genitori che mettono in atto il “metodo smartphone” lo fanno per una loro comodità personale, ad esempio per tenere impegnato il bambino nei momenti in cui la sua presenza può risultare scomoda oppure per calmarlo allorchè si appresta a fare dei capricci (ma come abbiamo visto, se poi si osa toglierglielo di mano i capricci aumentano in maniera esponenziale).

Circa 5 su 10 impiegano lo smartphone dalle 3 alle 6 ore extrascolastiche, il 16% dalle 7 alle 10 ore e il 10% oltre le 10 (ma il 63% lo utilizza anche a scuola durante le lezioni).

Il bambino che cresce con lo smartphone, una volta arrivato a scuola, ovviamente non cambia le sue abitudini così radicate in sè solo per il semplice fatto che si trova fuori casa. E la scuola attuale, di per sè, non è il luogo più accattivante per la generazione 2.0: si parla molto poco di tecnologia, lo smartphone e gli altri devices che permettono un collegamento alla rete sono visti più come dei nemici da abbattere che come degli strumenti da scoprire e capire. Pensiamo ad esempio a tutte quelle circolari − sovente ignorate dai discenti stessi − che i dirigenti di istituto continuano a stilare per scoraggiare l’accesso alla scuola ai device teconologici per mano degli studenti, oppure anche alle scarse conoscenza in materia di tecnologia da parte di larga parte del corpo docente, che pertanto non è in grado di istruire la classe sul corretto uso della tecnologia di cui ogni famiglia dispone. Di tale situazione sono complici anche i programmi scolastici, che un ministero dell’Istruzione (fin troppo) ancorato al passato si esime dall’aggiornare e che dunque non lascia spazio alla conoscenza scolastica della tecnologia odierna. La stessa tecnologia in compagnia della quale i più giovani passano ore ed ore, tant’è che a 1 su 10 non bastano 10 ore in compagnia dello smartphone davanti agli occhi, una latenza temporale effettivamente eccessiva, che priva di altre attività più importanti (prima tra tutte lo studio, dato che tra l’altro − passando anche tanto tempo a scuola davanti al telefono − lo studente dovrebbe recuperare tale tempo perso una volta rientrato in casa) e che estranea dalla realtà e fa correre tanti rischi, anche molto gravi. Basti pensare al cyberbullismo, la pedofilia online, le condotte pericolose oggetto di emulazione...tutte cose che appunto a scuola non vengono insegnate. E se non se ne parla non si fa altro che arrivare, anche se indirettamente, a favorirle. Peccato che benchè siano tematiche molto più importanti per i minori (oltretutto ne va della loro incolumità) rispetto a tante altre che si affrontano a scuola, ovvero quelle che concernono i piani di studio, in classe se ne senta parlare solo di rado. La scuola renderebbe alla società un’incomparabile opera meritoria se educasse gli studenti al corretto e sano uso della tecnologia. A maggior ragione poichè le nuove generazioni passano fin troppo tempo collegate a internet tramite i vari device e in particolar modo tramite lo smartphone, che viene spesso utilizzato perfino a scuola durante le ore di lezione. A ciò concorre la diffusione sempre più capillare di phablet, ovvero cellulari di grandi dimensioni, dai 5,5 pollici in su (“phablet” sarebbe infatti l’unione dei termini anglosassoni “phone” e “tablet”), che rendono più comodo l’utilizzo del telefono a mo’ di computerino da portare con sè ovunque si vada e in qualsiasi situazione si presenti; ma tanta colpa ce l’hanno anche tutti quei genitori i quali mettono lo smartphone nelle mani dei figli sin dai primissimi anni di vita. Siccome abbiamo visto anche che la scuola non è stata effettivamente in grado − almeno fino ad ora − di educare gli studenti al corretto utilizzo della tecnologia di cui si trovano sempre più in possesso, non rimane altro che informare le famiglie e le istituzioni che si occupano dei giovani in merito a queste tematiche al fine di poter promuovere tra le nuove generazioni un sano rapporto con la rete. Ecco dunque un altro importante punto della ricerca che andrò personalmente a commentare:

Il 95% degli adolescenti ha almeno un profilo sui social network a partire in media dai 12 anni, e la maggior parte gestisce in parallelo 5/6 profili e 2/3 app di IM. Il 69% ha un profilo su Facebook, il 67% su Instagram, il 66% su YouTube, il 47% su Snapchat, il 22% su Ask, il 16% su Twitter e il 15% su Tumblr.

Che in età adolescenziale sia potente la motivazione all’instaurare e mantenere rapporti sociali coi coetanei è cosa risaputa in psicologia; tuttavia il recente avvento del web 2.0 − di cui i social network sono i maggiori esponenti − ha portato alla nuova convinzione tra i giovani che “se non si ha un profilo (almeno) sui maggiori social si è out”, ovvero la presenza capillare sui social è diventata talmente necessaria da poter tagliare fuori dai rapporti sociali nell’eventualità in cui venga a mancare: ecco perchè non ci si limita nemmeno più alla sola presenza su Facebook come accadeva qualche anno fa, ma si cerca di essere presenti su quanti più social possibili. Una necessità che in realtà non avrebbe ragione di esistere, poichè ogni ragazzo normale non ha veramente bisogno della presenza costante e capillare sui social al pari di una celebrità, un politico o un’azienda, che invece hanno chiaramente bisogno di una vetrina online per poter raggiungere il maggior numero di persone. Tale ricerca narcisistica della visibilità pura e semplice, senza appunto delle tangibili motivazioni dietro, porta con sè allarmanti pericoli: primo tra tutti possiamo ricordare la possibilità di farsi inconsapevolmente notare da malintenzionati − pedofili in primis − i quali non si fanno di certo scappare la ghiotta opportunità offerta dai social di poter spiare un minore, conoscerlo meglio sulla base delle informazioni che lascia trapelare dal suo profilo e infine entrarci in contatto; in secondo luogo c’è la possibilità di rendersi preda dei cosiddetti cyberbulli e delle loro offese ed umiliazioni, una minaccia che arriva a compromettere la sanità mentale della vittima e che − in casi estremi − può portare perfino al suicidio; in terzo luogo c’è la possibilità di imbattersi in contenuti inappropriati per una giovane età, in particolar modo quei video − presenti sulle piattaforme di video streaming quali YouTube, Vimeo e Dailymotion, ma anche su Facebook − contenenti riferimenti a comportamenti pericolosi per sè e per gli altri, che vengono emulati dai giovani i quali riprendono se stessi impegnati in tali bravate per poi caricare a loro volta i video della loro “impresa” sui social in cerca di laute visualizzazioni, incoraggianti mi piace e commenti favorevoli. Il rapporto morboso che si viene a creare e ad instaurare con i social è ben rappresentato dal fatto che i giovani non selezionano quali di essi utilizzare, bensì li utilizzano indiscriminatamente seguendo la moda del momento. Essi infatti GESTISCONO in parallelo 5/6 profili, ovvero non si limitano ad iscriversi e a creare un account su di un dato numero di social per poi vedere se fanno al caso loro e quindi selezionare solo quelli che gli possono veramente servire. É dunque lampante come la presenza sui social sia oramai diventato un dovere, un must da seguire senza se e senza ma. Facciamo un esempio: se già si possiede Facebook, si potrebbe fare benissimo a meno di Instagram, d’altra parte il social di Mark Zuckerberg permette allo stesso modo di pubblicare e condividere foto, seguire ed entrare in contatto con altre persone, diffondere hashtag...dunque perchè è così pressante la necessità di iscriversi a Instagram? Perchè i ragazzi di oggi sono diventati tutti grandi appassionati di fotografia, tutti fotografi provetti? Assolutamente no, altrimenti a Instagram avrebbero preferito Flickr − il social di Yahoo dedicato alla fotografia, accessibile anche da PC (Instagram lo è solo ed esclusivamente dalla app per Android o iOS, almeno per poter caricare le foto) e che regala ben 1 TB di upload in contenuti fotografici ad ogni iscritto − ma siccome è meno conosciuto e popolare rispetto ad Instagram, ecco che invece tutti utilizzano Instagram. Questo (ab)uso dei social network rimane tra l’altro fra le principali cause di eccessivo utilizzo della rete, che sottrae tantissimo tempo allo studio e ad altre attività importanti...ma d’altronde come si fa a trovare il tempo per poter studiare se ci si deve prima scervellare su come fare il prossimo selfie da postare? Si tratta di controcultura, la nuova cultura della mera apparenza fisica che contribuisce alla creazione dell’identità personale in risposta alla necessità di ricerca del sè che avviene in adolescenza. Oggi si è qualcuno in base al numero di mi piace ottenuti sui post di Facebook, di iscritti al proprio canale YouTube, di follower su Instagram....L’apparire in contrapposizione all’essere. Anche perchè se si è veramente qualcuno, se davvero si ha la testa sulle spalle, non si passano le ore sui social alla ricerca di approvazione.

I soggetti tra i 14 e i 19 anni fanno circa 5 selfie al giorno e circa 1 su 10 di essi ricorrono a selfie estremi in cui mettono anche a repentaglio la vita; circa 2 su 10 condividono tutti i selfie che fanno sui social network e su Whatsapp ed oltre il 12% ha inoltre ricevuto una sfida a fare un selfie estremo per dimostrare il proprio coraggio.

Non semplici foto, selfie. I selfie vanno oltre i tradizionali ritratti in quanto vi differiscono fondamentalmente a causa della loro struttura: se i normali ritratti presuppongono che ci sia un agente e un ricevente, un soggetto e un oggetto − ovvero una persona che scatta la foto e una che viene immortalata − nei selfie entrambe queste figure coincidono, e quindi c’è un unico individuo che porta a termine l’opera. E questo è un dato importante, poichè con i selfie si porta avanti il messaggio: “sono io prima di tutti”, si favorisce la formazione di un sè ipertrofico, onnipotente, accanto a un mondo che si limita a fare da sfondo, una realtà in cui la propria presenza è sottolineata quanto non mai. “Appaio, dunque sono. E quanto più appaio, tanto più sono qualcuno”. Questo è ciò che si vuole affermare con i selfie: apparire per valere, apparire per non cadere nell’oblio. Sì, perchè i selfie presuppongono ovviamente l’immediata condivisione sui social e sulle app di IM (messaggistica istantanea) come Whatsapp, e tale dato appare chiaro dalla ricerca: ben il 20% condivide ogni suo selfie che si è scattato. Un grave pericolo, però, per la propria incolumità personale, anche in quanto i malintenzionati − come i pedofili o i cyberbulli − possono trarre un enorme vantaggio da tutta quella miriade di selfie che finiscono postati online: un cyberbullo potrebbe schernire pesantemente un suo coetaneo a causa del fatto che appare poco attraente, oppure obeso o ancora poichè porta gli occhiali; un pedofilo potrebbe risalire all’identità di un ragazzino visionando i suoi selfie, oppure volerci entrare in contatto perchè magari, dopo averli visionati, lo trova di suo interesse. Ma i ragazzi faticano a comprendere questi pericoli, tanti ne sono a conoscenza ma cercano di rimuoverli e tenerli lontani dalla coscienza, a tanti altri nessuno glieli ha spiegati a dovere, e soprattutto a tanti pesa il non poter seguire l’impazzante moda dei selfie, che d’altra parte è resa anche molto forte sia dai produttori di hardware sia da quelli di software. I primi poichè producono cellulari sempre più improntati ai selfie: se infatti i modelli meno recenti di smartphone aventi la fotocamera anteriore erano destinati a un utilizzo della stessa finalizzato soprattutto a fare da supporto alle videochiamate, al contrario quelli di nuova generazione sono focalizzati proprio sui selfie. Non a caso, infatti, stanno uscendo sul mercato cellulari la cui fotocamera anteriore ha sempre un numero maggiore di megapixel, oppure ancora dispone di altri gingilli come lo smile detector, lo stabilizzatore ottico e perfino il flash.


É lampante, dunque, che tali modelli di telefoni siano chiaramente destinati ad un utilizzo orientato ai selfie (basti pensare che esiste addirittura un modello di Asus Zenfone denominato proprio “Selfie”!). Per quanto riguarda invece i produttori di software, anche qui è chiaro come essi stiano orientando la produzione di app sempre più in un’ottica “selfie”, e ciò è palese se assistiamo alla progressiva evoluzione dell’app “fotocamera” presente su ogni smartphone: se prima era lasciato poco spazio in termini di opzioni e funzionalità alla fotocamera anteriore, oggi questa è quasi più evoluta rispetto a quella posteriore. Ma abbiamo assistito anche a un vero e proprio boom di altre app che risultano in un modo o nell’altro collegate ai selfie: le innumerevoli app selfie camera, quelle inerenti l’editing dei selfie e il loro fotoritocco al fine di apparire meglio in essi o comunque di poter modificare il proprio aspetto, addirittura ci sono social network che integrano funzionalità propriamente legate ai selfie (ad esempio Snapchat con i suoi filtri) oppure il cui successo è stato dettato in larga parte dalla condivisione di selfie ad opera dei vari utenti (Instagram in primis). Insomma, l’industria 2.0 sa cavalcare molto astutamente l’onda dei selfie per poterne trarre lauti profitti economici, senza però tenere in conto tutti quegli aspetti negativi, almeno per l’incolumità personale, legati a questa moda. Non mi riferisco esclusivamente a quei rischi indiretti che ho citato sopra − entrare in contatto con pedofili, cyberbulli...− ma anche a pericoli ben più diretti e immediati, rappresentati dal doversi mettere a rischio al fine di scattare quei cosiddetti “selfie estremi”, ovvero dei selfie in stile “prova di coraggio” che i giovani mettono in atto con l’obiettivo di dimostrare quanto siano valorosi e sprezzanti del pericolo. Almeno finchè non ci rimettono la pelle. Selfie mentre si guida a velocità di rally, selfie in bilico su dei tetti o dei cornicioni, selfie sui binari della ferrovia allorchè il treno sta per passare....sono tutti selfie che si possono tristemente trovare in bella mostra sui social. E il rischio maggiore è proprio legato al fatto che tali selfie estremi vengono diffusi tramite i social e dunque finiscono con lo spingere all’emulazione inducendo altri giovani ancora a portare a termine queste bravate. Questo è il prezzo da pagare per i selfie.

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